domenica 26 aprile 2009

Il modernismo educatore dell'anima divisa

Qualche giorno fa durante un famoso programma televisivo, che tratta di ingiustizie che i cittadini subiscono, è stata presentato un caso in cui presso un centro di recupero per ragazzi con problematiche definite “devianti”, nel parmense, hanno sporto denuncia allo staff che dirige il centro in quanto somministravano a questi giovani un mix di farmaci per farli stare tranquilli, ogni qualvolta uno degli “educatori” riteneva che essi assumessero comportamenti “criminosi”. E sapete quali erano i casi definiti criminosi? Baciarsi, farsi delle carezze, far l’amore, reagire all’autorità. Cose di questo tipo erano definite criminose e meritavano l’iniezione di farmaci sedanti!
Questo programma televisivo mi ha fatto pensare a tutti quegli uomini e quelle donne che incontro, e che praticano quotidianamente la rimozione interiore del conflitto attraverso due operazioni: la prima è quella della divisione dell’”io” in parti differenti, la seconda è l’identificazione con una sola di quelle parti che diventa la parte che governa tutte le altre. Questa parte disciplina le altri parti che riguardano i desideri, le pulsioni, le passioni. Questa ultima parte, che reprime tutte le altre, nel programma televisivo era stata finanche affidata a delle persone fisiche, che a loro discrezione reprimevano le altre parti, ritenute devianti, con iniezioni.
Se spostiamo per un attimo la nostra attenzione sul piano della filosofia dell’anima divisa, ci ritroviamo nel cuore dell’età classica nella figura della battaglia della ragione contro le passioni, per un verso già presente in Platone e che si prolunga nelle discipline scientifiche, in particolare quelle umanistiche, fino ai giorni odierni. Tutti noi facciamo l’esperienza quotidiana dei conflitti interiori ed è appunto a questa esperienza che già Platone faceva riferimento per arrivare alla “divisione dell’anima” illustrata nei sui scritti. Non è un caso che la filosofia occidentale definisca questa esperienza con il termine appunto di “divisione” piuttosto che di “molteplicità”. Definire l’anima come “molteplice” significherebbe infatti riconoscerne il carattere irriducibilmente conflittuale e contraddittorio.
Platone pensa la cosa diversamente. Dal suo punto di vista la molteplicità di una persona è una forma di divisione e diventa secondaria rispetto all’unità che và assunta come primaria. Platone insomma pensa che sia anormale attraversare un conflitto interiore e che l’anima debba apprendere a disciplinare quel fenomeno all’interno di se stessa. Utilizza una metafora, quella dell’anima simile ad un carro alato il cui cocchiere debba governare due cavalli: il cocchiere rappresenta la ragione, la parte dell’anima che ha il compito della direzione del cocchio. Nonostante la sua predisposizione il cocchiere non si attiene sempre al suo compito. Vi è infatti nel cocchio anche un cavallo nero, riottoso, che tira il cocchio in direzione contraria, appunto contraddittoria. Eccolo il cavallo nero delle passioni, che a dispetto delle energie spese dal cavallo bianco, fa precipitare la corsa del cocchio nel caos.
Secondo me la metafora esprime bene il meccanismo della rimozione dei conflitti interiori, grazie al quale la nostra società disciplinare funziona. Ma tradisce una contraddizione, perché suggerisce che il compito di padroneggiare le passioni, ritenute cattive, dipenda ancora una volta dalla passione di rimuovere il conflitto interiore. E’ una contraddizione particolarmente pericolosa, perché tende a rimuovere la nostra molteplicità interiore con aggressività, azzerando l’intera dimensione della creatività che appartiene essenzialmente al conflitto.
E’ possibile diventare altro da se stessi? E’ possibile sfuggire all’ancoraggio nella realtà? Non credo. La verità è che noi siamo sempre in una situazione con la quale dobbiamo fare i conti e solo con la quale cambiamo. E il cambiamento necessita di conflitto con la realtà!

domenica 19 aprile 2009

Siamo tutti agenti segreti

Molto spesso mi capita di incontrare uomini e donne, durante i lavori di consulenza individuale, che si lamentano affermando che fanno “una vita che non gli assomiglia” come se nel loro universo privato dei propri fantasmi, nessuno di loro è ciò che gli altri pensano. Sostanzialmente nascondono agli altri il loro essere contraddittori, il loro essere multipli. Come se la loro vita concreta di ogni giorno è un incidente di percorso che ha interrotto la loro realizzazione di ciò che in realtà sono. Come se vivessero la loro vita concreata in una sorta di metafisica del quotidiano in cui nascondere la propria verità profonda oppure dove giace in attesa di un giorno in cui finalmente possono mettere in atto quello che desiderano essere realmente.
Ad esempio in amore sono pochi coloro che amano o si innamorano di persone che mostrano la propria molteplicità, diversità e contraddittorietà, preferiscono trovarsi di fronte a persone identiche oppure persone che appunto nascondono la loro vera natura. Poi dopo un po’ di tempo si scoprono di essere delusi o offesi per l’inganno subito e stanchi di aspettare che il vero “io” del partner emerga.
In effetti tutti noi tendiamo un po’ a dire che se non riusciamo a fare qualcosa, dimagrire, smettere di fumare, cambiare lavoro, fare dello sport, è perché “qualcosa” è più forte di noi e non ci permette di realizzare quello che vogliamo. Ma quel “qualcosa” che non ci permette di smettere di fumare, cambiare lavoro, ecc., è dentro di noi, ci appartiene, è il “noi” molteplice. Noi non siamo univoci, siamo molte cose, abbiamo una personalità multipla, cioè possiamo essere molte cose, interpretare molti ruoli. Il non accettare questa molteplicità della nostra personalità ci conduce alla negazione dei conflitti interiori. Sento persone che affermano di sentirsi “se stesse” solo quando stanno bene e attraversano un momento felice della loro vita e che quando invece, stanno male e attraversano un momento difficile, affermano che si ritrovano in una situazione che non gli somiglia: “quello non sono io”.
Ma in effetto noi siamo sempre “noi” stessi, soprattutto nelle situazioni difficili ed è proprio in queste situazioni che emergono le potenzialità nascoste dentro la nostra multipla personalità, non in quelle in cui stiamo bene. E’ il volersi trovare sempre in situazioni piacevoli che alla fine ci “formatta” definitivamente e completamente come un hard disc e proviamo poi quella sensazione di “vita che non ci assomiglia”.
La versione dell’uomo moderno tipica delle nostre società che negano l’esistente è appunto: “la mia vita non mi assomiglia”, sempre alla ricerca di un altro “io” possibile: faccio un mestiere ma ne vorrei fare un altro, sto in un posto a trascorrere le ferie ma vorrei trovarmi da un’altra parte, sto con un partner ma vorrei stare con un altro….
Una specie di “sindrome dell’agente segreto” sempre in incognito: “sono qui ma non sono io”.

mercoledì 8 aprile 2009

La felicità nell'epoca del modernismo

Il carattere astratto e liquido dell'uomo moderno permette di evitare i conflitti interiori molto velocemente. Ma questo evitamento del conflitto è possibile anche per le nuove strategie del potere disciplinare delle società contemporanee. Lo stesso Michel Foucault individuava una differenza sostanziale tra le società incentrate sulla sovranità e quelle incentrate sulla disciplina e sulla trasparenza. Nelle prime il potere si esercita in modo intermittente, in tempi e situazioni determinati; nelle seconde il potere si esercita invece in modo permanente su tutti i membri della società, poichè ciascuno di loro ha interiorizzato la disciplina. Secondo Foucault sono proprio questo tipo di società che promuovono lo sradicamento dell'individuo, l'identificazione con un ruolo prestabilito, la ricerca del senso della propria vita in una immagine identificatoria della felicità.
Le immagini identificatorie della felicità sono molto varie, vanno da un paio di calzoni al prestigio sociale, da una marca di un dentrificio a frequentare persone di un ambiente "elevato", da un materasso a una vacanza esotica. Ovviamente la possibilità di desiderarle è a disposizione di chiunque, pensando che quelle immagini identificatorie della felicità sono la felicità stessa. Infatti nella nostra vita quotidiana stiamo costantemente a confrontare i nostri obiettivi, i nostri desideri con quelle immagini della felicità ed ecco che il meccanismo della sorveglianza funzionerà in noi in modo autonomo e permanente. Le immagini identificarie della felicità, in cui la vita della persone viene incasellata e ingabbiata, risultano anche essere dispositivi di colpevolizzazione: "perchè non ho sentito quello che dovevo sentire?", "perchè non sono riuscito a ottenere ciò che poteva rendermi felice?" e altre domande di questo tipo.

I modi di vita devianti dalla norma vengono esplicitamente sottoposti a mille vessazioni quotidiane (vedesi la vicenda delle popolazione gitane, gli omosessuali, i senza tetto) e repressi.

Risulta che da una parte il potere e la società si adoperano affinchè aderiamo alle immagini della felicità, dall'altra parte si danno un gran da fare affinchè ogni percorso diverso risulti impossibile e in molti casi vietato: il non desiderare "come di deve" può essere molto pericoloso! Innazitutto provoca la reazione di noi stessi contro se stessi (autocensura), poi segue quella dei parenti, degli esperti, della polizia.

Quello che accade nella realtà è che tutte le immagini identificatorie della felicità servono ad elinimare i desideri originali e i conflitti interiori in un luogo metafisico della tranquillità assoluta, dove appunto sia il desiderio che il conflitto non esistono più.
Ma poichè questo non è possibile noi siamo perennemente in cerca di felicità non voluta, non desiderata, una specie di ricerca di felicità in sovrappiù mai raggiunta e quindi sempre in una condizione di infelicità, anch' essa mai raggiunta e quindi anch'essa in sovrappiù.