venerdì 7 agosto 2009

Cosa resta dell'uomo nel mondo globalizzato - Conferenza















Cosa resta dell'uomo nel mondo globalizzato - Conferenza di Luciano Vacca e Matteo Malanca nell'ambito del Cineforum "L'umanoide il prossimo futuro" organizzato dal Centro Servizi Immateriali Coop Ferruccio Degradi e Biblioteca "Quinto che legge"

Per chi volesse avere le dispense della conferenza può chiederle inviando una mail al seguente indirizzo lucianovacca@hotmail.com o telefonando al cell. 3292145943







giovedì 6 agosto 2009

APERT@MENTE di Anna Bonalumi e Luciano Vacca


APERT@MENTE di Anna Bonalumi e Luciano Vacca
Dialoghi in rete senza risposte tra un'insegnante e un formatorePosted by Picasa

lunedì 22 giugno 2009

Politica come religione

Storicamente la via maestra della risoluzione dei conflitti è stata quella politica. Lo è ancora oggi, anche se, in cerca di soluzioni ci rivolgiamo ormai senza troppa convinzione a uomini politici ridotti nella maggioranza dei casi alla caricatura di se stessi, personaggi a cui domandiamo risposte che, lo sappiamo benissimo, da tempo non posseggono più. Nonostante tutto perdura la fede nell’esistenza di una via maestra politica attraverso cui i conflitti dovrebbero essere assunti e risolti: via della politica che finisce per essere una sorta di imbuto delle contraddizioni, che vengono immancabilmente incanalate nella sola dimensione della rappresentazione. L’ipotesi che prevale quando si affronta una contraddizione è che tutto sia politico e quindi vi è una immediata riduzione e spostamento altrove del conflitto e gli attori del conflitto in essere si sentono “salvi” e non impegnati dal compiere delle azioni consequenziali. Il risultato di questa ipotesi è che tutto ciò che riguarda la vita della società e delle persone è pensato, affrontato, risolto nel e attraverso il campo del politico.
Non parlo del politico nel senso della polis, ma delle dimensioni circoscritte e regolamentate della politica rappresentativa, della politica dei partiti e dei gruppi di pressione. L’insieme dei conflitti e dei processi che fanno la vita di una società viene così mascherato dal monopolio di cui gode il regime della rappresentazione, secondo un processo di politicizzazione del conflitto che comporta il sistematico sradicamento degli uomini dalle loro vite concrete. Quindi mai nessuno si sente davvero coinvolto in un conflitto, dove si può vincere o perdere! Tutto questo non impedisce naturalmente lo sviluppo di ogni genere di attività e mestieri più o meno rispettosi della legge, legati alle varie dimensioni della nostra esistenza.
Tuttavia, di fronte a problemi che nascono all’interno di ciascuna di quelle dimensioni, si arriva immancabilmente alla conclusione che i limiti, le paralisi, la matrice stessa di quei problemi appartengono all’ambito politico. Ad esempio osserviamo quanto accade nella scuola italiana : si lavora per 8 forse 9 mesi all’anno, il personale guadagna per 13 in molti casi 14 mensilità e questa situazione determina il fatto che il 97/98% delle entrate scolastiche viene speso solo per il personale e nulla per gli apprendimenti degli allievi. Invece di affrontare immediatamente queste contraddizioni esse vengono immediatamente spostate sul piano politico- partitico e la conseguenza è che rimangono irrisolte, perché gli attori in campo si sottraggono dal conflitto, beneficiando dei più alti privilegi di ogni altro lavoratore.
Gli uomini e le donne contemporanei non saranno più in attesa di un mondo ideale, ma la sfera del politico conserva ancora, almeno nella forma degradata da un appiattimento della vita sulla dimensione dell’economico, una posizione centrale che ne fa il destinatario automatico dei nostri auspici, delle nostre lamentele, delle nostre rivolte, dei nostri desideri. Ovviamente lo scambio che effettua l’oligarchia politica con questo apparato burocratico amministrativo, che in Italia conta diversi milioni di persone, è quello di costituirsi in una casta con privilegi altrettanto superiori.
Vi è, in questo, il miraggio di una nuova trascendenza del politico, che ha preso il posto delle antiche forme di trascendenza religiose. Il politico ha oggi i suoi chierici e i suoi credenti, le sue chiese e i suoi riti, i suoi eretici e i suoi santi. Investendolo di un compito messianico, noi non ci attendiamo più soltanto una buona gestione degli affari pubblici, che per altro non avviene se non per gli “affari” di alcuni gruppi, ma l’indicazione del cammino che deve condurci verso il mondo della “promessa”. Come se la formattazione che esso realizza dei nostri conflitti non gli consentisse soltanto di “trattarli”, ma anche di farci partecipare all’avvento di una società “del sole dell’avvenire”. Ogni pietra incontrata sul cammino, ogni problema in cui ci imbattiamo diventa così un segnavia per la “terra promessa”.
Altro che fine delle ideologie: siamo di fronte all’elevazione dell’ideologia alla sacralità della religione!

domenica 14 giugno 2009

Trasparenza securitaria

Le nostre società hanno fatto ingresso, credo in modo definitivo, nell’epoca della negazione dell’alterità e del conflitto. Nessuno dei problemi in cui siamo soliti imbatterci, sia a livello collettivo che a livello personale, viene più riconosciuto come conflitto. Fatto salvi i casi di conflitto “autorizzato”, previa formattazione, preferiamo procedere alla loro rimozione, nella convinzione che ogni opacità debba essere sradicata, che ogni forma di alterità nasconda un potenziale nemico.
La trasparenza e il consenso sono gli ideali per cui tendiamo a credere che le intenzioni delle nostre azioni ci siano chiare e note a noi e agli altri. Pensiamo che ogni attività umana rinvii ad una intenzione ed uno scopo umanamente comprensibile. Che nulla venga intrapreso se non in vista di un certo utile. Ed infine che quella trasparenza che noi dobbiamo a noi stessi e agli altri, che gli altri devono a noi e al potere, sia un’esigenza legittima e priva di ombre e di doppi fondi.
Certo può accadere che i cittadini in una nazione non siano tutti d’accordo con una tale riforma o legge promossa dal governo in carica, ma si è soliti spiegare questa circostanza col fatto che essi “non hanno compreso la ragione” del provvedimento. Nei gruppi, infatti, appare spesso che le opinioni possono divergere tra di loro, ma solo perché non ci si è “spiegati bene” o a sufficienza. Le ragioni altrui che divergono dalle nostre sono sempre considerate anormali, transitorie, dunque modificabili. Non pensiamo mai che l’altro abbia ragioni diverse e immodificabili da noi!
Da qui nascono i problemi di un’assenza di leadership reale, la quale nasce e si determina su un conflitto di posizioni e sull’affermazione di una visione del mondo. Tuttavia, se manca il conflitto dove può avvenire la determinazione della leadership se non in una dimensione filtrata e mediata al ribasso, dove nessuno si assume le responsabilità, né i gregari di un gruppo né tanto meno il finto leader che manifesterà le sue funzioni sempre più in modo repressivo?
Nel rapporto con noi stessi, nella vita politica e sociale del nostro paese soffriamo spesso di tali deficit e una determinata formazione, che secondo me è solo indottrinamento, ha ricondotto questo ad un problema di “comprensione” o di “comunicazione” che impediscono la trasparenza totale, l’intesa universale, l’accordo sempre e a tutti i costi. Non è in nessun modo ammessa, invece, la possibilità che ci siano azioni ed idee non analizzabili in termini di utilità e quindi non comprensibili con determinati schemi di interpretazione e non riconducibili a problemi di tipo comunicativo. Ed è qui uno dei confini psicologici sradicati dall’attuale tendenza soft e subdola alla rimozione del conflitto che tanti in-formatori “mielosi” diffondono in giro.
Personalmente ritengo che ci sia la necessità di accettare il conflitto in modo permanente e che questo implichi il riconoscimento di una molteplicità di punti di vista la cui difformità non può essere liquidata come un semplice “difetto” presente in quelli che “non capiscono”, vuoi per carenza di “informazioni”, vuoi per insufficienza nella “comunicazione”. Penso, invece, che ci siano ancora uomini e donne non ancora “senza qualità”, non ancora impregnati dalla ideologia della neutralità e dell’indifferenza, non ancora formattati definitivamente nei desideri e nella loro libido, che semplicemente si ribellano alle norme sociali perché hanno altri punti vista del mondo e della realtà
Abbiamo, inoltre, una versione “hard”della rimozione del conflitto che implica molto semplicemente lo sradicamento dell’alterità: una società della trasparenza radicale non conosce antagonisti, ma soltanto “terroristi” e “devianti” da annientare. In questo modo si disconosce l’esistenza stessa dei conflitti, perché riconoscerli significherebbe accettare che esiste qualcosa che si oppone alla trasparenza e soprattutto alla “sicurezza” delle popolazioni. L’accettazione del conflitto implica che altri possano opporsi a un certo ordine sociale senza costituire questo come un’anomalia da eliminare.
Le società contemporanee, lungi dall’essere diventate società pacificate, proprio perché negano e rimuovono il conflitto sono attraversate da un’immensa carica di violenza alla quale si reagisce con politiche securitarie che aumentano i sistemi di sorveglianza e di punizione.
Insomma una specie di cane che si morde da solo la coda in un vortice sempre maggiore di follia!

domenica 7 giugno 2009

Terrorismo: solo uno spauracchio

Se oggi il terrorismo è funzionale alla legittimazione di una serie di provvedimenti liberticidi da parte degli stati, è giocoforza constatare che anche i gruppi e gli attentati terroristici hanno subito profonde trasformazioni. Se pensiamo, ad esempio, alla resistenza nei diversi paesi europei durante la Seconda guerra mondiale, è indubbio riconoscere che questa non ha mai utilizzato metodi terroristici, non ha mai colpito alla cieca la popolazione per esercitare una pressione sul nemico.
Pertanto quando osserviamo uno dei tanti conflitti armati tuttora in atto, dobbiamo distinguere tra la resistenza armata che si indirizza a un bersaglio avversario anch’esso armato e l’impiego contemporaneo della violenza su bersagli civili, il cui scopo è appunto quello di far pressioni sul nemico, mietendo vittime in modo del tutto indiscriminato.
Questo tipo di strategia assume la popolazione come pura massa anonima, come oggetto assolutamente passivo. Analogamente il biopotere offre una protezione “anonima” alla popolazione minacciata, chiedendole di “lasciar fare” alle alte sfere in nome del suo bene, vedasi la vicenda della base americana di Guantanamo, nella quale vengono ingabbiati i prigionieri della guerra dell’Afganistan in condizioni disumane e dove a nessuno organismo internazionale è permesso di mettere piede.
La novità del terrorismo moderno è quella di essere profondamente reazionario. Al di là del frasario con cui rivendica i propri atti, il terrorismo pensa dal punto di vista del potere. Chi programma gli attentati terroristici assume la popolazione civile come semplice moneta di scambio, utilizzando la vita delle persone come argomento a proprio favore. Il terrorismo è un’arma reazionaria pensata e impiegata dall’alto di una torre d’avorio: chi la occupa non esita a massacrare migliaia di persone sullo scacchiere del potere internazionale.
Ma l’utilizzo degli attentati terroristici, come arma o come giustificazione di una forma di disciplina sociale, è diventato uno degli strumenti principali di annullamento del conflitto ed è proprio in questo che risiede tutto il progetto reazionario e liberticida. La popolazione occidentale, che ormai è considerata un corpo da sorvegliare, da controllare e da punire, si trova a scegliere da una posizione di passività assoluta quale delle due barbarie in campi sia la meno peggio. C’è sempre un’urgenza che giustifica il controllo disciplinare della popolazione: il corpo sociale è in pericolo, è necessario agire immediatamente e la conseguente azione consiste nella discriminazione, nel disciplinamento, nell’eliminazione dei “devianti” e dei “nemici”. Ma anche se ci poniamo dall’altra parte della barricata la “causa” ha sempre i tratti dell’urgenza: non c’è mai il tempo per organizzare un vero movimento di massa di resistenza, non c’è mai il modo di sviluppare nuove possibilità di conflitto sociale che producano lotta, non si può che adottare la sola via ancora percorribile, quella del terrore della popolazione. Questo tipo di logica, anche se in forma più soft, è stata assunta come meccanismo di lotta politica tra partiti in uno schieramento bipolare che semplifica ed elimina tutte le diversità e le sue possibili rappresentanze politiche e sociali.
In questo orizzonte, in cui il conflitto si è ridotto a scontro frontale, il razzismo diventa la struttura stessa dell’azione: l’altro è sempre un soggetto “non-umano” che va eliminato con ogni mezzo, meritevole di subire la violenza più barbarica in quanto nemico dell’umanità. Tuttavia, quando si inizia a credere che esiste una barbarie buona e una cattiva, quest’ultima ha già vinto la partita. Si abbandona il conflitto per far ingresso in una forma di vita organizzata in funzione dello scontro permanente, in una dimensione di polarizzazione estrema. Ogni pensiero della complessità diventa sospetto, ogni persona le cui reazioni non si riducano a riflessi condizionati, ad automatismi che decidono a priori chi è il buono e chi il cattivo, apparirà incline alla connivenza con il nemico. Quanti si sforzano di pensare in termini più complessi risulteranno pericolosi agli occhi dell’uno come dell’altro versante.
Oltre che degli atti terroristici veri e propri, l’epoca del terrorismo è caratterizzata dalla paura e dall’incertezza da cui ciascuno di noi si scopre in ogni istante assillato. Per questo è particolarmente concreto il pericolo che sia il terrorismo a vincere in ultima analisi la partita. Paradossalmente, la risorsa decisiva per uscire da questa situazione di terrore è quella di rintrodurre il concetto del conflitto nella sua molteplicità e quindi accettare che la guerra e le lotte armate di resistenza ne siano uno dei tanti risvolti.

sabato 30 maggio 2009

Il biopotere dell'impero post-moderno

L’irrompere del “pericoloso terrorista” nella nostra realtà (mi ricordo dopo l’11 Settembre, le esercitazioni che si facevano per prepararsi ad eventuali attacchi terroristi), e ancor più nelle rappresentazioni dei mass media, ha fatto diventare l’idea della guerra non più come uno scontro, ma è diventata uno strumento al servizio del potere, che può giovarsene nella gestione dei problemi di politica interna tanto più facilmente in quanto gode dell’autorità e del consenso che si ricompatta nel momento della minaccia. Il modo più facile per rinsaldare l’unità di un paese è infatti quello di individuare un nemico esterno. Infatti in Italia ogni qual volta un nostro militare delle cosiddette missioni di pace all’estero viene preso di mira da qualche gruppo avversario, non esistono più divisioni: destra e sinistra blaterano la stessa litania. Dopo la caduta del “muro di Berlino”, le classi dirigenti dei paesi hanno dovuto costruire un nuovo nemico. Serviva qualcosa su cui fare leva, così che il gioco delle contrapposizioni potesse continuare a evocare da una parte l’Occidente e dall’altro l’Oriente. Ed ecco la soluzione: il terrorismo globale. Prima gli Stati Uniti, ma non solo loro, hanno formato e armato questi gruppi, che si sono poi rivelati adatti a suggerire l’immagine di unità “arabo-musulmana” che fronteggerebbe il mondo occidentale. Nella realtà sono quasi inesistenti queste unità e difficilmente si potrebbero affermare nel mondo musulmano, ma sono utilissime a giustificare l’escalation del controllo sociale generalizzato.
L’utilizzo della minaccia terrorista (reale o immaginaria) da parte del potere porta allo scoperto il fenomeno emergente del biopotere, forma avanzata del potere disciplinare nella sua strategia di gestione delle popolazioni. Secondo M. Foucault la violenza estrema delle guerre deregolamentate del XX secolo nasce dal fatto che esse sono state condotte come delle guerre razziali, infatti nel loro contesto il nemico non viene più percepito come un avversario politico, ma come un pericolo che dall’esterno o dall’interno minaccia la vita della popolazione. Vedasi la vicenda degli sbarchi di clandestini sulle nostre coste, ai quali in modo indiscriminato viene ignorato il diritto d’asilo e che vengono rimpatriati in massa in paesi nei quali non vengono tenuti in alcuna considerazione i diritti umani.
Le nostre società sono in effetti società della normalizzazione. In esse il potere si presenta anzitutto come biopotere: potere cioè di condannare a morte chi si suppone rappresenti un pericolo per la società. A tal proposito basta ricordare che in alcuni passaggi del Trattato di Lisbona vi è la reintroduzione della pena di morte per insurrezione contro i governi. Insomma la funzione omicida dello stato stesso non può essere assicurata che dal razzismo. La guerra trova la propria giustificazione in un potere di tipo normativo, che assume appunto la forma della classificazione di un gruppo umano determinato in senso biologico (da qui la nozione di “razza”) e additato come minaccia per la popolazione stessa. Si sono svolte in questo modo le guerre coloniali e gli stermini di innumerevoli minoranze annientate durante il Novecento, ma non vi è alcun dubbio che è all’interno di questa linea che dobbiamo situare il fenomeno del terrorismo, incarnazione contemporanea della guerra razzista propria delle società incentrate sul biopotere e sul sempre più serrato controllo che esse esercitano sulla popolazione in nome della difesa della salute dei corpi standardizzati e formattati dai modelli di riferimento dominanti.
Il biopotere produce infatti, guerre presentate come operazioni di sicurezza, che tendono ad assumere i connotati di un intervento di tipo sanitario. Il linguaggio medico domina il discorso del biopotere. Si parla di “precisione chirurgica” degli attacchi, di “danni collaterali” delle operazioni portate a termine, della denuncia negli ospedali dei clandestini e della schedatura a scuola dei loro figli per evitare il diffondersi di malattie infettive tra la popolazione…La società, il cosiddetto “mondo civilizzato”, sarebbe minacciato da agenti “patogeni” che si tratta di “sradicare” e i metodi necessari alla difesa godono di una giustificazione aprioristica: esiste un’unica popolazione e gli “altri” sono inumani! Questo nuovo genere di guerra prevale sulle altre. Il pericolo che ci minaccia viene presentato come permanente, diffuso, totale. La sorveglianza e il conseguente intervento devono quindi a loro volta essere permanenti, diffusi, totali. Devono investire la vita umana a ogni livello e in ogni dimensione. Si chiede a tutti e in tutti i luoghi di essere poliziotti di se stessi. Insomma il motto è: dalla culla alla tomba ti sorveglio e ti punisco, anzi ti sorvegli e ti punisci da solo!

domenica 24 maggio 2009

Il dominio si fonda sull'eliminazione del conflitto

Se provate a chiedere a un gruppo di persone come affrontare il conflitto, la risposta è che l’unico modo possibile è la guerra. La guerra serve a porre fine a qualsiasi conflitto: ma un simile pensiero della “tabula rasa” dimentica la complessità del conflitto a vantaggio del momento dell’eliminazione dell’avversario. La violenza delle nostre società sarebbe confinata nei periodi di guerra e l’unico spazio in cui può esplodere la tensione accumulata e che struttura i rapporti sociali di ogni giorno è quella della “guerra totale”.
La guerra totale è soprattutto una guerra senza regole: le battaglie e gli scontri, che in genere hanno precisi meccanismi di regolazione interna, si disfano di quei vincoli per lasciar posto a conflitti armati senza limite, il cui obiettivo è l’eliminazione della popolazione nemica nel suo insieme, anziché soltanto del suo esercito. La guerra totale comporta quindi l’esplicita volontà di riduzione del conflitto al solo conflitto armato: essa non è solo una guerra più barbara di altre, ma è una guerra che mira alla riduzione del conflitto ad una unica dimensione, appunto quella della scontro.
Le origini del fenomeno si ritrovano già in tempo di pace. La guerra totale nasce da società incapaci di pensare il conflitto nelle sue diverse dimensioni, da società che pensano di dover affrontare il conflitto mirando all’annientamento di tutto ciò che è “altro”. Infatti credo, che questo tipo di tendenza sia iniziata dagli eserciti rivoluzionari nella Francia del 1789 destinata a diffondersi in modo caratteristico nel XX secolo.
L’esordio del novecento è stato il genocidio degli armeni e da quel momento la storia contemporanea è passata da una “soluzione finale” a un’altra senza interruzioni. A Guernica si tennero le prove generali della Seconda guerra mondiale. Poi venne l’annientamento di massa degli ebrei d’Europa, nonché degli zingari e degli altri “devianti”, gli omosessuali, i malati psichici. Tutto questo segnò un taglio netto rispetto a ogni forma tradizionale di conflitto. Nei campi di sterminio, insieme a sei milioni di ebrei, morì il progetto dell’Illuminismo, morì la sua fiducia in un progresso illimitato, che avrebbe dovuto condurre l’umanità a realizzare il paradiso in terra. Le scienze, la filosofia, il movimento operaio avevano fatto della Germania una promessa per il futuro, e l’eco di tutto questo era ancora ben percepibile negli anni in cui si affacciò sulla scena il nazismo. Eppure la promessa partorì il mostro, e il mostro della guerra totale e della “soluzione finale” proseguì il suo cammino dalla Cambogia al Ruanda, teatro di altrettanti conflitti deregolamentati che culminarono nel genocidio. E’ infatti caratteristico di simili massacri che essi costituiscano la continuazione della politica con altri mezzi. Non però di una politica qualsiasi. Ma di una politica di dominio, cioè di una politica fondata sull’annientamento del conflitto.
La guerra moderna è infatti indissociabile dalla distruzione della dimensione del conflitto, attraverso la sua riduzione a puro e semplice scontro. Di qui l’illusione, propria di ogni guerra tecnologica, di una totale padronanza della violenza e dei risultati a cui la violenza sembra portare. Illusione, tuttavia, che dà vita al suo opposto, alla guerra ingovernabile, alla guerra senza limiti. Nessuna delle guerre moderne è finita nei tempi e nei modi previsti. Il solo caso di una guerra che si sia svolta secondo i desideri dei generali è quello della guerra dei sei giorni nel 1967. Questa guerra fece precipitare Israele e l’insieme dei paesi arabi limitrofi in una situazione senza via d’uscita, e il trionfo che i militari avevano ottenuto sul campo mirando alla semplice vittoria di uno scontro non fece altro che consegnare Israele a una realtà subito rivelatasi ingestibile, quella dei territori occupati. Di fronte alla complessità del mondo arabo e quindi alla molteplicità delle sue contraddizioni (ci sono posizioni che vanno dal movimento palestinese rivoluzionario a posizioni dei capi di stato dei paesi arabi reazionari), di fronte alla problematicità di questo conflitto la guerra dei sei giorni era pensata come una guerra totale, la madre di tutte le guerre, destinata a semplificare una volta per tutte quella situazione ingovernabile. Ma proprio questa è la caratteristica tanto minacciosa quanto attuale della guerra come puro scontro.
L’idea è ormai entrata a far parte della vita quotidiana in tempo di pace. La violenza delle società disciplinari di questo inizio secolo plasma l’immagine dell’opposizione come minaccia che va eliminata.

lunedì 18 maggio 2009

Sarà pace per sempre?

Ogni qualvolta che pensiamo al conflitto ci viene subito in mente la guerra. La guerra è il fenomeno che ci può aiutare meglio a comprendere le barbarie che si nascondono dietro la rimozione dei conflitti della nostra società. Aver pensato di poter vivere costantemente in un mondo di pace, che era pace solo per una parte del mondo mentre per l’altra parte le condizioni di vita si brutalizzavano sempre di più, ha reso talmente banale il male che abbiamo finanche rimosso il senso di colpa e quindi la responsabilità di gestirlo.
Nel 1778 Kant nel suo “Progetto per la pace perpetua” affermava che il cammino verso la pace universale era possibile in quanto l’umanità era ormai in condizioni di governarsi razionalmente da sola. Insomma “i bambini erano diventati adulti”: li si poteva far uscire da soli senza che fossero massacrati in giro per il mondo. Oggi, a distanza di più due secoli chi oserebbe ancora parlare di pace continuativa o semplicemente di temporanei cessate il fuoco?
Forse dovremmo iniziare a prendere coscienza che la guerra non è una malattia infantile dell’umanità, ma ha una sua ragione di esistere. Non tutto quello che esiste nella vita degli uomini, possiamo dividerlo tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto. Esiste e basta! La guerra, insomma, è necessaria al sistema in cui viviamo, lo riequilibra, un enunciato difficile e doloroso ma molto vero! Ciò non toglie che ancora oggi la guerra sia pensata come un’anomalia a cui tentare di porre fine al più presto, una forma di conflitto che si tratta di eliminare alla radice. Solo la pace appare desiderabile, almeno da un punto di vista astratto e idealista.
Secondo l’ideologia dominante delle nostre società disciplinari, solo un folle, invece, può desiderare la guerra, infatti siamo pieni di servi che preferiscono aver salva la vita in cambio della rinuncia alla libertà. Il servo è colui che, anziché farsi carico della conflittualità, della guerra e della sua violenza, sceglie per una disciplinata sopravvivenza. Il guerriero invece è una figura antropologicamente decisiva in tutte le culture e le società umane, di cui è difficile valutare la portata in un’epoca ipocrita in cui l’industria degli armamenti prospera accanto ai discorsi sdolcinati fatti a favore della pace. Dobbiamo imparare a pensare nuovamente la guerra non come una pura e semplice interruzione della normalità, ma come un quadro di sviluppo complessivo in cui si inscrivono molteplici processi. Del resto come non notare che anche le ragioni dell’odierna contrapposizione tra Oriente e Occidente, in apparenza tanto legate a vicende contemporanee, ripetono di fatto uno scenario vecchio di almeno dieci secoli? E al ruolo di cerniera che l’Italia storicamente ha svolto tra queste due civiltà? E che cosa succederà se l’Italia viene meno a questo ruolo, come sembra che faccia, in relazione alla vicenda della non accoglienza e dell’intolleranza nei confronti dei disperati che provengono dai paesi poveri del mondo? Oppure siamo così sciocchi da pensare che questo non modificherà l’atteggiamento di quei popoli nei nostri confronti?
Quindi le domande da porsi sono: come possiamo pensare al mondo e alla vita, individuale e sociale, rinunciando alla promessa della pace perpetua? Come possiamo introdurre nelle nostre visioni del mondo, nei nostri modelli di riferimento per imparare nuovamente a pensare alla guerra come a un qualcosa che si ripresenta nella vita delle società?
Se non riusciremo a riappropriarci di questa dimensione, lungi dal chiudere definitivamente i conti con la realtà della guerra ci condanneremo a guerre sempre più barbare, perché combattute nel deserto dell’indiscusso e dell’impensato. Perché la guerra non sia guerra totale, è necessario tornare a includere nei nostri schemi di pensiero ciò che avevamo creduto di poterne escludere. Quindi bisogna criticare la guerra a partire da posizioni oggettive e non idealistiche, questo è quanto dobbiamo fare se vogliamo interpretarla come una delle forme molteplici e contraddittorie del conflitto, anziché come un puro e semplice fronteggiarsi di potenze ostili.

sabato 9 maggio 2009

Praticare il contropotere

Si fa un gran parlare di democrazia, ma in effetti non c’è nulla di meno democratico del periodo che stiamo vivendo e pertanto la parola democrazia è diventata una parola vuota di significato usata in tutte le salse per condire un sistema orripilante e repressivo. Ma andiamo con ordine.
Con l’emergere delle forme contemporanee di quella che chiamiamo democrazia, l’uomo “reale” non diventa ciò che sperava di diventare e cioè un individuo sovrano, un cittadino illuminato, un soggetto responsabile della propria vita, ma invece ha dovuto rimuovere la molteplicità che costituiva il tessuto sociale e dell’individuo che ne è una piega e un’espressione. Infatti le comunità che ho osservato, (utilizzo il termine comunità come eufemismo) i cittadini non hanno nessun legame sociale, nessuna relazione sociale significativa tra di loro. E’ stata del tutto eliminata questa dimensione umana, riducendo le comunità a dei territori fatti da abitazioni, strade e luoghi di produzione e di consumo.
Questo primo livello in apparenza sembra tranquillo, ma se lo osserviamo in profondità è il luogo caratterizzato da una perenne e forte conflittualità. Questo luogo non è affatto rappresentato politicamente, mentre la rappresentazione politica corrisponde ad un secondo livello quello della fabbricazione di un uomo astratto senza pulsioni, senza radici. La realtà degli interessi privati corrisponde infine a un terzo livello, quello della macroeconomia che si è sostituita ideologicamente ed oggettivamente al primo livello, quello appunto sopracitato del conflitto sotterraneo mai manifesto.
In questo modo, la ragione economica va ad occupare il posto della realtà complessa e contraddittoria delle nostre società. Ciò spiega il perché il secondo livello, quello politico, vada progressivamente riducendosi a una forma di gestione e di rappresentazione non del livello concreto della conflittualità diffusa e sotterranea, ma delle sfere economiche e dei suoi interessi. D'altronde non sono necessarie analisi politiche e teoriche per confermare questo, ma è sufficiente la percezione di ognuno di noi del divario tra la realtà quotidiana e la sfera politica.
Il trionfo di questo sistema è radicale, in quanto arriva a creare una percezione normalizzata delle cose, una percezione non più ideologica ma come la natura stessa del mondo, come l’essenza dell’uomo. Ovviamente per far ciò è necessaria una folta pletora di esperti nei campi più disparati che governano i mass media e di conseguenza formano l’opinione pubblica, facendoci credere che l’unico e migliore mondo possibile è quello in cui viviamo.
Di fronte ad una situazione di questo tipo non possiamo più essere in una posizione di attesa messianica, ma quotidianamente praticare la propria emancipazione e quelle degli altri camminando. Ed è questo camminare, cioè questo spostarsi nello spazio e nel tempo, che rivitalizza la società attraverso pratiche di contropotere, che rimettono al centro delle nostre analisi e pratiche quel sottostrato contraddittorio e conflittuale del processo materiale definito all’inizio come primo livello.
La via del contropotere è appunto la via del conflitto, e solo attraverso questa via può nascere qualcosa di comune in un gruppo o in una comunità, quindi grande responsabilità hanno tutti quegli operatori socio-culturali che non possono più esimersi da questo compito di rimettere in moto la società anziché narcotizzarla.

venerdì 1 maggio 2009

Le leggi contro natura delle città

Una delle questioni centrali che emerge durante il mio lavoro di intervento nel campo psico-sociale è quella che le persone hanno rimosso dalla loro testa il “conflitto” ed è qui tutta la crisi della democrazia contemporanea. Di fatto la crisi è data dalla crescente dissonanza tra le leggi naturali dell’uomo e le leggi delle città, cioè quelle leggi che si pongono al servizio esclusivo degli interessi economici dominanti. Ciò che io definisco come leggi naturali e che designano la realtà fondamentale del conflitto, non sono leggi positive, ne sono leggi conoscibili in quanto tali, ma sono leggi secondo le quali “non tutto è possibile” e quindi c’è un limite oltre il quale non si può andare e non si deve andare.
Le leggi naturali dell’uomo sono il fondamento che garantisce, in forme differenti, il dispiegarsi della vita di un popolo, di una civiltà. Nelle comunità che mi capita di lavorare, ma in generale nelle comunità dove viviamo, si dovrebbe verificarsi una consonanza tra le leggi delle città e quelle naturali dell’uomo. Ma ciò non avviene, perché? Perché le nostre cosiddette “democrazie” contemporanee sono tormentate dal dilemma di costruire a tavolino un processo storico privo del soggetto “uomo”, ma dichiarandosi a favore di questo ultimo. Ad esempio non c’è un quartiere delle città che sia pensato in funzione del fatto che devono “vivere” e non semplicemente abitarci degli esseri umani; ma si fa un gran parlare dell’uomo e dei suoi bisogni a condizione che sia un “uomo” che sia semplicemente un consumatore vorace di tutto e quindi ancora una volta funzionale alle èlite affaristiche.
In nome della ragione economica, i membri della democrazia moderna dichiarano di trovarsi alla sommità del percorso di civilizzazione negando l’esistenza di miliardi di esclusi e di veri e propri dannati della terra, esattamente come faceva l’Unione Sovietica della dittatura del proletariato, dove gli uomini e le donne in carne e ossa si trovavano di fatto privati di qualsiasi forma di diritto. La democrazie moderna pretende insomma di essere il solo sistema politico in accordo con la natura umana, nel momento stesso in cui sostituisce alla molteplicità conflittuale del tessuto sociale il giochino finto degli antagonismi che il meccanismo della rappresentazione politica avrà preliminarmente formattato in base agli schemi imposti dalla ragione economica. Questo vale per tutti quei paesi, compreso l’Italia, che si richiamano alla democrazia moderna come contenitore vuoto.
E sono più evidenti le contraddizioni, proprio in quelle grandi aree metropolitane dove le leggi delle città tanto meno sono in accordo con le leggi naturali dell’uomo tanto più vengono attraversate da crisi sociali e storiche. In alcune zone d’Italia, dove più forte è stata l’urbanizzazione dei territori e pertanto il dominio di alcuni ristretti gruppi è stato più feroce, si è distrutto totalmente un ordine sociale; l’unico ordine che avrebbe potuto garantire lo sviluppo della società intera e della vita degli uomini.
Impasse, stallo, incapacità di gestire: sono questi i termini che più rappresentano la situazione odierna.
Ma una società in crisi è anche un organismo in cerca di un nuovo equilibrio dinamico, infatti se osserviamo bene tra le pieghe, in quelle che vengono definite culture underground, sotterranee, metropolitane (anche Internet appartiene a queste forme culturali in crescita) vi è la ricerca di una nuova armonia tra l’uomo e la città.
Questi segnali, oggi deboli e marginali, osteggiati dalla cultura omologante, ma gli unici che creano relazione tra il dichiarato teorico e il praticato nei comportamenti, domani possono diventare sempre più forti e costituire un nuovo ordine sociale.

domenica 26 aprile 2009

Il modernismo educatore dell'anima divisa

Qualche giorno fa durante un famoso programma televisivo, che tratta di ingiustizie che i cittadini subiscono, è stata presentato un caso in cui presso un centro di recupero per ragazzi con problematiche definite “devianti”, nel parmense, hanno sporto denuncia allo staff che dirige il centro in quanto somministravano a questi giovani un mix di farmaci per farli stare tranquilli, ogni qualvolta uno degli “educatori” riteneva che essi assumessero comportamenti “criminosi”. E sapete quali erano i casi definiti criminosi? Baciarsi, farsi delle carezze, far l’amore, reagire all’autorità. Cose di questo tipo erano definite criminose e meritavano l’iniezione di farmaci sedanti!
Questo programma televisivo mi ha fatto pensare a tutti quegli uomini e quelle donne che incontro, e che praticano quotidianamente la rimozione interiore del conflitto attraverso due operazioni: la prima è quella della divisione dell’”io” in parti differenti, la seconda è l’identificazione con una sola di quelle parti che diventa la parte che governa tutte le altre. Questa parte disciplina le altri parti che riguardano i desideri, le pulsioni, le passioni. Questa ultima parte, che reprime tutte le altre, nel programma televisivo era stata finanche affidata a delle persone fisiche, che a loro discrezione reprimevano le altre parti, ritenute devianti, con iniezioni.
Se spostiamo per un attimo la nostra attenzione sul piano della filosofia dell’anima divisa, ci ritroviamo nel cuore dell’età classica nella figura della battaglia della ragione contro le passioni, per un verso già presente in Platone e che si prolunga nelle discipline scientifiche, in particolare quelle umanistiche, fino ai giorni odierni. Tutti noi facciamo l’esperienza quotidiana dei conflitti interiori ed è appunto a questa esperienza che già Platone faceva riferimento per arrivare alla “divisione dell’anima” illustrata nei sui scritti. Non è un caso che la filosofia occidentale definisca questa esperienza con il termine appunto di “divisione” piuttosto che di “molteplicità”. Definire l’anima come “molteplice” significherebbe infatti riconoscerne il carattere irriducibilmente conflittuale e contraddittorio.
Platone pensa la cosa diversamente. Dal suo punto di vista la molteplicità di una persona è una forma di divisione e diventa secondaria rispetto all’unità che và assunta come primaria. Platone insomma pensa che sia anormale attraversare un conflitto interiore e che l’anima debba apprendere a disciplinare quel fenomeno all’interno di se stessa. Utilizza una metafora, quella dell’anima simile ad un carro alato il cui cocchiere debba governare due cavalli: il cocchiere rappresenta la ragione, la parte dell’anima che ha il compito della direzione del cocchio. Nonostante la sua predisposizione il cocchiere non si attiene sempre al suo compito. Vi è infatti nel cocchio anche un cavallo nero, riottoso, che tira il cocchio in direzione contraria, appunto contraddittoria. Eccolo il cavallo nero delle passioni, che a dispetto delle energie spese dal cavallo bianco, fa precipitare la corsa del cocchio nel caos.
Secondo me la metafora esprime bene il meccanismo della rimozione dei conflitti interiori, grazie al quale la nostra società disciplinare funziona. Ma tradisce una contraddizione, perché suggerisce che il compito di padroneggiare le passioni, ritenute cattive, dipenda ancora una volta dalla passione di rimuovere il conflitto interiore. E’ una contraddizione particolarmente pericolosa, perché tende a rimuovere la nostra molteplicità interiore con aggressività, azzerando l’intera dimensione della creatività che appartiene essenzialmente al conflitto.
E’ possibile diventare altro da se stessi? E’ possibile sfuggire all’ancoraggio nella realtà? Non credo. La verità è che noi siamo sempre in una situazione con la quale dobbiamo fare i conti e solo con la quale cambiamo. E il cambiamento necessita di conflitto con la realtà!

domenica 19 aprile 2009

Siamo tutti agenti segreti

Molto spesso mi capita di incontrare uomini e donne, durante i lavori di consulenza individuale, che si lamentano affermando che fanno “una vita che non gli assomiglia” come se nel loro universo privato dei propri fantasmi, nessuno di loro è ciò che gli altri pensano. Sostanzialmente nascondono agli altri il loro essere contraddittori, il loro essere multipli. Come se la loro vita concreta di ogni giorno è un incidente di percorso che ha interrotto la loro realizzazione di ciò che in realtà sono. Come se vivessero la loro vita concreata in una sorta di metafisica del quotidiano in cui nascondere la propria verità profonda oppure dove giace in attesa di un giorno in cui finalmente possono mettere in atto quello che desiderano essere realmente.
Ad esempio in amore sono pochi coloro che amano o si innamorano di persone che mostrano la propria molteplicità, diversità e contraddittorietà, preferiscono trovarsi di fronte a persone identiche oppure persone che appunto nascondono la loro vera natura. Poi dopo un po’ di tempo si scoprono di essere delusi o offesi per l’inganno subito e stanchi di aspettare che il vero “io” del partner emerga.
In effetti tutti noi tendiamo un po’ a dire che se non riusciamo a fare qualcosa, dimagrire, smettere di fumare, cambiare lavoro, fare dello sport, è perché “qualcosa” è più forte di noi e non ci permette di realizzare quello che vogliamo. Ma quel “qualcosa” che non ci permette di smettere di fumare, cambiare lavoro, ecc., è dentro di noi, ci appartiene, è il “noi” molteplice. Noi non siamo univoci, siamo molte cose, abbiamo una personalità multipla, cioè possiamo essere molte cose, interpretare molti ruoli. Il non accettare questa molteplicità della nostra personalità ci conduce alla negazione dei conflitti interiori. Sento persone che affermano di sentirsi “se stesse” solo quando stanno bene e attraversano un momento felice della loro vita e che quando invece, stanno male e attraversano un momento difficile, affermano che si ritrovano in una situazione che non gli somiglia: “quello non sono io”.
Ma in effetto noi siamo sempre “noi” stessi, soprattutto nelle situazioni difficili ed è proprio in queste situazioni che emergono le potenzialità nascoste dentro la nostra multipla personalità, non in quelle in cui stiamo bene. E’ il volersi trovare sempre in situazioni piacevoli che alla fine ci “formatta” definitivamente e completamente come un hard disc e proviamo poi quella sensazione di “vita che non ci assomiglia”.
La versione dell’uomo moderno tipica delle nostre società che negano l’esistente è appunto: “la mia vita non mi assomiglia”, sempre alla ricerca di un altro “io” possibile: faccio un mestiere ma ne vorrei fare un altro, sto in un posto a trascorrere le ferie ma vorrei trovarmi da un’altra parte, sto con un partner ma vorrei stare con un altro….
Una specie di “sindrome dell’agente segreto” sempre in incognito: “sono qui ma non sono io”.

mercoledì 8 aprile 2009

La felicità nell'epoca del modernismo

Il carattere astratto e liquido dell'uomo moderno permette di evitare i conflitti interiori molto velocemente. Ma questo evitamento del conflitto è possibile anche per le nuove strategie del potere disciplinare delle società contemporanee. Lo stesso Michel Foucault individuava una differenza sostanziale tra le società incentrate sulla sovranità e quelle incentrate sulla disciplina e sulla trasparenza. Nelle prime il potere si esercita in modo intermittente, in tempi e situazioni determinati; nelle seconde il potere si esercita invece in modo permanente su tutti i membri della società, poichè ciascuno di loro ha interiorizzato la disciplina. Secondo Foucault sono proprio questo tipo di società che promuovono lo sradicamento dell'individuo, l'identificazione con un ruolo prestabilito, la ricerca del senso della propria vita in una immagine identificatoria della felicità.
Le immagini identificatorie della felicità sono molto varie, vanno da un paio di calzoni al prestigio sociale, da una marca di un dentrificio a frequentare persone di un ambiente "elevato", da un materasso a una vacanza esotica. Ovviamente la possibilità di desiderarle è a disposizione di chiunque, pensando che quelle immagini identificatorie della felicità sono la felicità stessa. Infatti nella nostra vita quotidiana stiamo costantemente a confrontare i nostri obiettivi, i nostri desideri con quelle immagini della felicità ed ecco che il meccanismo della sorveglianza funzionerà in noi in modo autonomo e permanente. Le immagini identificarie della felicità, in cui la vita della persone viene incasellata e ingabbiata, risultano anche essere dispositivi di colpevolizzazione: "perchè non ho sentito quello che dovevo sentire?", "perchè non sono riuscito a ottenere ciò che poteva rendermi felice?" e altre domande di questo tipo.

I modi di vita devianti dalla norma vengono esplicitamente sottoposti a mille vessazioni quotidiane (vedesi la vicenda delle popolazione gitane, gli omosessuali, i senza tetto) e repressi.

Risulta che da una parte il potere e la società si adoperano affinchè aderiamo alle immagini della felicità, dall'altra parte si danno un gran da fare affinchè ogni percorso diverso risulti impossibile e in molti casi vietato: il non desiderare "come di deve" può essere molto pericoloso! Innazitutto provoca la reazione di noi stessi contro se stessi (autocensura), poi segue quella dei parenti, degli esperti, della polizia.

Quello che accade nella realtà è che tutte le immagini identificatorie della felicità servono ad elinimare i desideri originali e i conflitti interiori in un luogo metafisico della tranquillità assoluta, dove appunto sia il desiderio che il conflitto non esistono più.
Ma poichè questo non è possibile noi siamo perennemente in cerca di felicità non voluta, non desiderata, una specie di ricerca di felicità in sovrappiù mai raggiunta e quindi sempre in una condizione di infelicità, anch' essa mai raggiunta e quindi anch'essa in sovrappiù.

domenica 29 marzo 2009

L'uomo è fragilità

Qualche giorno fa ero in autobus con un mio conoscente e attraversando una delle strade milanesi ci è capitato di assistere ad un gravissimo incidente stradale. Anziché fermarci e soccorrere i feriti, sull’autobus si è scatenata una discussione sui dati relativi alle statistiche sugli incidenti di quel tipo. Un modo per mettersi al riparo da ogni rischio di reazione emotiva coinvolgente. Era come se di fronte a quell’evento, che avrebbe dovuto provocare una reazione emotiva collettiva, ognuno di noi tendeva a rimuovere il proprio punto di vista e quindi a rimuovere l’emozione provata, sostituendolo con quella che si supponeva fosse la verità sciorinata quotidianamente dai mass media sui dati statistici degli incidenti stradali. Come se quella verità che assistevamo dall’autobus, non esistesse nella concreta esperienza delle persone coinvolte. Non nasceva da un vissuto che coinvolgeva i corpi e il sistema percettivo. Era appunto come se stessimo assistendo ad un dramma televisivo come spettatori.
E’ questo comportamento che ci fa evitare ad esempio di intervenire presso l’amico/a in difficoltà, domandandoci se ne abbia il diritto, se intervenire non sia un gesto indiscreto, dato che ciascuno ha la propria vita e i propri problemi, e non si può mai sapere che cosa stia provando davvero un altro.
E’ questo comportamento che non ci fa vedere le nuove povertà dilaganti nella nostra società, soprattutto nelle megalopoli; se non fosse così dovremmo essere coinvolti ad ogni angolo di strada.
E’ questo comportamento che ci impone di “rimanere neutrali”, perché esprimere un proprio giudizio significa interferire, impegnarsi eccessivamente o in modo troppo parziale. Ci si sente in colpa per il semplice fatto di “avere un punto di vista”; mentre la verità è appunto che noi “siamo” un punto di vista, un punto di vista materiale e concreto.
Rimuovendo in tal modo la fonte di ogni conflitto interiore, non facciamo altro che rimuovere il nostro “esserci” in una situazione concreta.
Per l’uomo moderno, la vita quotidiana non può essere che un susseguirsi di ruoli che si tratta semplicemente di recitare. Siamo impiegati o operai, padri o madri, amici, vicini di casa o persone di passaggio…. Ciascun ruolo richiede un comportamento sempre più rigoroso, sempre più aderente a un insieme di norme codificate.
Qualcuno potrebbe obiettare che in qualsiasi società le persone sono tenute a svolgere dei ruoli più o meno vari, ma la particolarità dell’attuale società sta nel fatto che ciascuno deve considerarsi e deve comportarsi come un “contenitore di alta qualità” predefinito e uguale a tutti gli altri. Nell’ideologia dominante, un ruolo può quindi essere occupato da chiunque. E’ vero che ogni società tende a normare i suoi individui, ma mai è avvenuto con tanta forza e sistematicità il negare le radici, le diversità, l’unicità, il vissuto molteplice e concreto degli uomini.
Non si tratta certamente di rimpiangere l’ordine sociale che fissava i ruoli di ciascuno in modo rigido, ma di comprendere che l’uomo astratto della modernità, lungi dall’avere posto fine ai suoi conflitti interiori, li ha semplicemente rimossi. L’uomo della modernità non è un uomo senza conflitti, ma è un uomo che vive i propri conflitti come qualcosa di anormale e nel suo profondo vive se stesso come un essere sempre inadeguato. E ciò è avvenuto in una sostanziale continuità con il modello vecchio di secoli che considerava i desideri, le passioni e le pulsioni come qualcosa da disciplinare. L’uomo contemporaneo non ha fatto altro che radicalizzare quello schema e portarlo al suo parossismo.
Siamo travolti dall’angoscia ogni volta che constatiamo in noi pulsioni, passioni, fantasmi che risultano contraddittori, che assediano i nostri ruoli sociali che ci sforziamo di interpretare. Mi capita, infatti, spesso di ascoltare persone che parlano della loro “diffidenza in se stessi”; l’origine di questo lamento ricorrente sta nel timore di sconfinamento dal proprio ruolo, nella possibilità ed eventualità di non potersi più controllare e quindi di far apparire al mondo intero quello che si è realmente: uomini fragili e quindi umani!

lunedì 23 marzo 2009

La qualità che conta: non avere nessuna qualità

Cosa sono le qualità che definiscono un uomo, una organizzazione di uomini che siano essi una azienda, una associazione, un gruppo, una comunità? Le qualità sono le RADICI e le CARATTERISTICHE peculiari, tipiche. Direi uniche! Le radici sono quei vincoli che costituiscono durante la vita il suo evolversi e il nucleo fondamentale di quell’uomo o di quella particolare comunità. Nelle società moderne, l’uomo ideale è l’”uomo senza qualità”. E’ l’uomo sempre identico a se stesso privo di alcuna qualità e se mai ne avesse qualcuna, è disposto a trattarla come qualcosa priva di alcuna importanza.
Nel mestiere che faccio, mi sono reso conto che questa è la condizione necessaria per l’uomo, per sopravvivere nelle società moderne. L’uomo non deve più agire, non deve più pensare, non deve più desiderare sulla base delle sue radici, ma ciò è possibile soltanto, sulla base di un ideale di uomo fatto in serie, interscambiabile con un altro uomo, appiattito sull’immagine con cui gli si dice di identificarsi. Se è questa la condizione degli uomini, quell’uomo è un uomo senza qualità, anzi direi che è un uomo che ha le stesse qualità degli altri uomini: cioè nessuna qualità.
Si è ormai affermato il mito dell’uomo senza qualità, senza radici, senza caratteristiche uniche, liquido e questo ha creato una inefficace trasmissione del Sapere dagli adulti ai giovani, da un uomo ad un altro uomo, da una comunità ad un’altra comunità. E se noi ci riflettiamo un po’, non è possibile che ci sia nessuna trasmissione di Sapere se non sulla base di una “differenza” che giustifica e rende desiderabile il Sapere. Nelle società moderne tutti gli individui si identificano con una immagine di uomo astratto dove tutti i conflitti sono stati già mediati, già disciplinati, già normati e quindi non è necessario mostrare alcuna differenza, alcuna qualità; appunto vien fuori una immagine da imitare di un uomo senza qualità.
E se caso mai dovessimo desiderare quello che per davvero desideriamo o non fare quello che i modelli di riferimento ci dicono di fare, diventiamo una “minaccia”, un “estraneo” e in molti casi, un “inumano”.
Mi è capitato qualche giorno fa di recarmi in uno dei tanti territori che continuano a chiamarsi inopportunamente comunità e di chiedere in una tabaccheria se avesse le sigarette che di solito fumo, ma che trovo sempre più raramente; la risposta è stata: “ma lei come si permette ancora di fumare quel tipo particolare di sigarette? Noi abbiamo soltanto quelle che fumano tutti. Anzi, ma come si permette di chiedermele, di desiderarle, di essere così egoista?”.
Ecco appunto il modello di riferimento ci chiede di non manifestare il vero desiderio, ma quello costruito artificiosamente, formattato. Solo reprimendo il vero desiderio diventiamo “uguali”, veniamo considerati dei cittadini, degli “umani”.
Pensiamo ancora per un attimo, a quelle popolazioni europee che per secoli hanno manifestato la loro particolare peculiarità nell’essere itineranti, oggi con molte normative legislative, se quei popoli non abbandonano la loro particolarità e quindi si omologano a vivere (si fa per dire) negli appartamenti e non più all’aria aperta, gli negano il diritto di cittadinanza e quindi non potranno più chiedere certificati, non potranno più utilizzare i servizi sanitari, non potranno più cercarsi un lavoro, non potranno più portare i loro figli a scuola, verranno cancellati dalle liste dei residenti; in un’unica parola: non esistono più!
Eppure si parla tanto e si spende tanto denaro pubblico per l’integrazione. Integrazione delle minoranze, dei portatori di handicap, ecc. Ma in effetti il potere non vuole l’integrazione, ma semplicemente la disintegrazione di ogni singola qualità, di ogni radice, di ogni caratteristica particolare! E solo a quel punto che il potere sarà pronto ad integrare: quando non c’è più nulla da integrare.

domenica 15 marzo 2009

La società devitalizzata

A dispetto di quanto raccontano del mito della modernità, non è affatto sicuro che la società democratica garantisca il definitivo abbandono dall’oscurità in cui immaginiamo immerso il Medioevo. Anzi sono forti i dubbi che la società democratica sia il vettore di un autentico cammino verso la libertà. Le rivoluzioni politiche hanno certamente emancipato l’uomo dalla società feudale, ma facendone pagare allo stesso un prezzo elevatissimo: una radicale depoliticizzazione della sua vita. Per quanto riguarda la nostra condizione attuale, potremmo parlare anche di un fenomeno di completa “devitalizzazione”.
Se pensiamo alla religione, nella società feudale essa costituiva un potere concreto e chi apparteneva a quella sfera disponeva di quel potere. Un potere inevitabilmente conflittuale, perché era separato dagli altri poteri. Ogni forma di impegno sociale assumeva di conseguenza la forma dell’impegno sociale.
Con l’avvento della democrazia, il potere politico passa nelle mani del popolo. Ma il popolo non è più lo stesso, non è più la molteplicità della società feudale. Il popolo diventa tale, abbandonando la potenza del suo molteplice e differenziato radicamento, fabbricando un uomo astratto: il “cittadino”, reso ormai disponibile alla rappresentazione politica e all’identificazione con quella rappresentazione. Per l’”uomo astratto”, il fatto di appartenere a una certa religione rappresenta qualcosa di diverso dal suo eventuale impegno politico. La fede appartiene ormai alla sfera privata della sua esistenza e non esprime nulla di decisivo nella sua vita pubblica. La sua individuale “volontà” non ha più alcuna precisa connotazione politica. E’ appunto questo il processo di “depoliticizzazione della vita sociale”, portata a compimento definitivo con l’avvento della società industriale e poi consumistica.
In democrazia la decisione politica si giocherà quindi, d’ora in poi, su un terreno a cui si accede mettendo tra parentesi l’ancoraggio concreto delle persone all’interno della società. La democrazia avrà luogo ai margini dei veri conflitti sociali e quindi refrattaria all’azione politica.
Non è affatto certo che ci siamo lasciati alle spalle il Medioevo, ma e sicuro, invece, che ci troviamo tutti, senza alcuna eccezione, sotto i riflettori accecanti del dispositivo di controllo totale. Ogni cosa, ogni affetto, ogni scelta si trova canalizzata entro un certo dispositivo di rappresentazione, e ciò che si limita ad essere semplicemente “presente” senza essere rappresentato si traduce rapidamente in un pericolo per la società: il malessere psicologico delle persone, i corpi dei “barboni” sulle panchine o che occupano un edificio, gli uomini e le donne poveri che non stanno dentro standards definiti….
E se ci fosse pure qualcuno che volesse rappresentare politicamente o socialmente questo “altro” spaccato della società viene represso duramente, se gli va bene completamente emarginato nella indifferenza. Alla base di questa democrazia si trova il principio del rispetto della scelta operata dal popolo, ma si tratta di un rispetto accordato a ben precise condizioni, quelle dettate dai poteri “forti”.
Uno stato democratico non ha alcuna chance di risolvere il conflitti sociali che lo attraversano facendo ricorso al piano della rappresentazione politica, in quanto essa è astratta, legata ad un punto di vista che guarda da “nessun punto di vista”, se non di quello di produrre, di consumare e di morire quando e come dice il potere.
Perché parlare di devitalizzazione e non soltanto di depoliticizzazione della società? Perché nel momento in cui lo spazio del politico viene canalizzato in direzione della sfera di rappresentazione finta, si avvia un processo di separazione del potere che si va a collocare all’interno della persona stessa. E’ la persona stessa che si incarica di organizzare i suoi conflitti interiori.
All’individuo spetterà il compito di garantire l’unità di ciò che è separato: in quanto uomo aderirà appassionatamente alla sua “fede” politica o religiosa, in quanto cittadino desidererà razionalmente il rispetto di tutte le “fedi” politiche o religiose, ponendosi dal punto di vista di “nessun punto di vista” e quindi tutte sono equivalenti. Si verifica un vero e proprio soffocamento del conflitto, un’autentica devitalizzazione del tessuto sociale, una completa rimozione dell’ancoraggio sociale da cui nascono i conflitti interni a una società e da cui deriva la sua stessa evoluzione.
Ed ecco che l’uomo-individuo si riduce ad essere un semplice supporto di una società serializzata a produrre, consumare e morire. Ma quando e come, lo decide il potere!

sabato 7 marzo 2009

Le pretese democratiche: l'"altro" è inumano

La democrazia oggi ama presentarsi come il frutto di esperienze pragmatiche e non di astratte ideologie, mentre in realtà essa si legittima, attraverso la convinzione del tutto ideologica, come la sintesi più alta dell'intera storia universale. Secondo questi "nuovi" ideologi, in democrazia ci troveremmo di fronte a una sorta di perenne epifania, coronamento trionfale del lungo cammino percorso dagli uomini che hanno portato a compimento una realtà che non è un semplice strumento al servizio della vita comune, ma l'espressione più perfetta della natura umana. Ecco che in questo modo la democrazia si trova legittimata storicamente, come un punto di vista privilegiato a partire dal quale essa stessa giudica ogni altra organizzazione sociale, distribuendo buoni e cattivi voti ai sistemi politici del passato e soprattutto del presente. La stessa società democratica pretende di essere un fenomeno naturale, in quanto si interpreta come l'espressione di un'essenza umana assoluta e universale.
Da ciò deriva la tendenza della democrazia a pensarsi come una realtà incontestabile, all'interno della quale un conflitto può essere ammesso solo a condizione che non metta in discussione i fondamenti della democrazia stessa. E' vero che nelle società democratiche moderne questo carattere di assolutezza è mascherato dalla rivendicazione della positività del confronto tra opinioni contrastanti e dal rispetto di cui godono interessi economici antagonosti. Ma quelle tensioni hanno diritto di cittadinanza solo a condizione di subire il processo di normalizzazione al termine del quale esse risulteranno perfettamente integrate al sistema. Se infatti il sistema è giunto a incarnare l'essenza stessa della natura umana, tutto ciò che gli si oppone, si tratti di individui o di gruppi che testimoniano la loro difformità ai suoi dettami, verrà identificato come "preumano" o addirittura "subumano". Ci si dichiarerà certo d'accordo sul fatto che il sistema è perfettibile, ma tale perfettibilità esigerà sempre e comunque una preliminare e totale adesione alla formattazione istituzionale.

E' dal crollo dell'impero sovietico (l'impero del male) in poi che il discorso dominante ha presentato la democrazia come l'unico modello di società possibile, riproponendo uno schema a cui ogni società umana deve obbedire. Senza un nemico che la minacci, la "civiltà" fatica a mantenere al rotta. Una civiltà vive solo fino a quando vive la sua "sorella" di segno opposto, la "barbarie". Per questo la figura del terrosta è diventata tanto centrale nella nostra epoca. Assurto al rango della minaccia più grave, ha consentito di scandire la vita quotidiana degli uomini e delle donne dell'intero pianeta in base alle esigenze e alle misure delle politiche securitarie, in nome appunto della lotta contro i "nemici della civiltà". L'efficacia della minaccia terrorista ha dato vita a una condizione di paura assolutamente sproporzionata rispetto alla relatà.

Il terrorismo è diventato quindi il vero paradigma dell'"altro" della civiltà: una categoria minacciosa dell'inumano di cui la versione contemporanea della democrazia ha bisogno per potersi affermare come l'unico ordine possibile. Si parla così degli "ostaggi" di uno sciopero. Si assimila al terrorismo, criminalizzandola, ogni attività di contestazione non formattata entro gli schemi della rappresentazione dominante.

La figura del terrorista si colloca perfettamente all'interno del sistema in cui viviamo. Strumentalizzato dal potere molto di più di quanto avvenisse in passato, egli è infatti profondamente funzionale alla democrazia dell'impero. E' la figura dell'inumano per eccellenza che moltiplica e conforta la tendenza ad una condizione di sorveglianza totale della democrazia moderna dove le "frontiere", mancando quelle esterne cadute con la globalizzazione, diventano interne alla civiltà stessa e il nemico si risolve in una minaccia costante che può nascondersi ovunque.

Nel tempo delle società securitarie, l'inumano non è una semplice minaccia della democrazia, ma è un suo necessario ed inevitabile corollario!!!

sabato 28 febbraio 2009

Il supermercato della democrazia televisiva

A tutti noi sono noti esempi di uomini politici che appartengono a schieramenti politici opposti e che tuttavia condividono le stesse origini sociali e gli stessi riferimenti culturali, hanno studiato nelle stesse scuole e ricoprono le stesse funzioni. Essi si fanno portatori di differenze politiche che non possono non essere, di conseguenza, del tutto superficiali. I loro punti di vista sono relativamente simili, e i modi in cui si esprime la loro rivalità sono l'effetto della rimozione del conflitto e quindi la loro rivalità di superfice è ignara della profondità del conflitti sociali reali.
Prendiamo in considerazione il "dibattito democratico", così come si svolge sia in pubblico sia in privato. Lungi dall'essere libero da restrizioni, un dibattito, al contrario , non è giudicato democratico se non a condizione di essere strutturato secondo lo schema del "contraddittorio". Nel supermercato delle idee, i consumatori di opinioni devono essere liberi di scegliere l'opinione che preferiscono. Nulla di meglio della contraddizione tra l'una e l'altra tesi, allora, per garantire ai consumatori la loro libertà di scelta. Ma in base a cosa potranno mai scegliere? La semplice contrapposizione non può essere un criterio sufficiente. Che cosa potrebbe spingere a orientarsi in una direzione piuttosto che in un'altra? Uno dei principi sacri del contraddittorio consiste nel sopprimere ogni fattore capace di fare inclinare la bilancia del confronto da un lato o dall'altro: la sacrosanta libertà d'opinione del cittadino, in quel caso, si troverebbe messa in pericolo. Per questo ci troviamo ad assistere tanto spesso alla sterile contrapposizione di opinioni incapaci di esprimere un punto di vista concreto.
Il dibattito, nella forma del contraddittorio, si nutre di opinioni astratte o nel migliore dei casi si neutralizzano reciprocamente. Dal padrone all'operaio, ciascuno avrà le proprie ragioni, e il dibattito non farà altro che consolidare la banalità secondo cui "tutti sono liberi di pensarla come vogliono".
Siamo di fronte ad un rito, legato all'astrazione di fondo su cui è costruito l'intero processo decisionale democratico. E tuttavia un'opinione astratta non è un'opinione. Mentre ogni opinione reale corrisponde a punti di riferimento culturali precisi e ben determinati. Non esiste affatto un punto di vista in base al quale l'operaio e il padrone hanno entrambi ragione. Non esistono prospettive equivalenti, ed è semplicemente impossibile confrontare le opinioni dell'operaio e quelle del padrone in base a uno "stesso punto di vista". Ma una volta costruito questo punto di vista astratto, conforme al principio democratico cui tutte le opinioni si equivalgono, ecco che il conflitto non ha più spazio nè ragione d'essere, e i contrari che rivaleggiano nel dibattito televisivo non esprimono più alcuna contrapposizione reale.
Possiamo concludere che i dibattiti televisivi sono completamente inutili alla determinazione di opinioni concrete, anzi il loro obiettivo, quello si concreto, è la determinazione di opinioni astratte narcotizzando l'opinione pubblica.

domenica 22 febbraio 2009

L'epoca della diffidenza


In una civiltà che non tollera i conflitti se non a condizione di riportarli nel quadro della norma, questa nuova barbarie prende di mira figure dell'"altro" molto diverse tra di loro.
Lo straniero che minaccia le nostre società, l'integralista che mette a repentaglio l'ordine dello Stato, ma anche il salariato in una impresa o il funzionario di una amministrazione che si oppongono alla disciplina e alla "messa in forma" che la cosiddetta "gesione delle risorse umane" impone a tutti noi. O, ancora, l'handiccappato, l'individuo in qualsiasi modo "deviante", il contestatore che rifiuta di costringere la propria denuncia entro forme di protesta consentite dal potere. Insomma tutti coloro i quali sembrano minacciare, con il loro comportamento, la loro stessa "salute" o la "salute" dei loro simili. Tutti coloro i quali si presentano come possibile fonte di caos, dunque di pericolo per l'ordine sociale istituito.
Tradizionalmente, il barbaro è lo straniero che minaccia una civiltà attestandosi sui suoi conflitti. Allo stesso tempo, è l'elemento estraneo che consente alla civiltà di autodefinirsi come tale.
Nel nostro mondo, ormai unificato dall'egemonia dello "stesso", quei confini sono invece sempre meno confini esterni, e sempre più confini interni. Mondo unico e ormai dominante che si va risolvendo via via in un insieme di fortezze in cui vivono gli "inclusi", asserragliati nel cuore dei territori degli "esclusi" in cui prende corpo la paura securitaria dei primi. La minaccia è diffusa, insondabile, dunque interna. Se i paesi del nord del mondo sono altrettante piccole fortezze, all'interno di ciascuna di esse esistono regioni simili a fortezze ancora più piccole, circondate da ancora più piccoli "territori degli esclusi", e ogni uomo e ogni donna tendeno a viversi come microfortezze immerse in inquietanti e microscopici "territori degli esclusi". Infine ciascuno di noi è portato a pensarsi come un territorio in cui nuclei di razionalità e di saggezza vivono l'assedio di pulsioni e passioni non civilizzate. La nostra è l'epoca della diffidenza!!!

martedì 17 febbraio 2009

L'iceberg del conflitto

Siamo eredi di un'epoca che ha creduto nella possibilità di porre fine a ogni forma di conflitto, temiamo profondamente tutto ciò che minaccia le nostre vite e le nostre società. Se potessimo, bandiremmo l'idea stessa di conflitto.
Ed è un compito impossibile oltre che assurdo, perchè il conflitto appartiene alla natura stessa della vita, al divenire delle cose.

Il pensiero moderno lo ha considerato come una dimensione patologica dell'ordine sociale o come strumento temporaneo per rovesciare la società presente con le sue contraddizioni e andare verso una società pacificata. Abbiamo l'impressione, ben nota ai marinai, di navigare con carte ormai inservibili.

Pensavamo di procedere verso territori pacificati, ed eccoci un ritorno di conflittualità, vistoso tanto a livello individuale quanto sociale. Conflittualità dalle forme sinistre, addirittura barbare.

Invece di pensare che il conflitto sia qualcosa di cui dobbiamo liberarci, dovremo considerarlo come una dimensione fisiologica della convivenza: negarlo significa minare le stesse basi della convivenza. In una società differenziata il conflitto è una realtà permanente e la vera sfida è che cosa farne, cioè entro quali limiti esso può manifestarsi e con quali mezzi deve essere affrontato.

sabato 7 febbraio 2009

Libertà, Potere e Società

Quanta libertà abbiamo oggi di esprimere il nostro pensiero? Esiste ancora il pensiero soggettivo oppure, così come cercano di farci credere, esiste solo un unico pensiero dominante e omologante? E il continuare a ripeterci che dobbiamo omologarci al pensiero unico ha ridotto notevolmente gli spazi di potere personale ampliando invece il potere pubblico.
Pensiamo solo come, quella che viene definita la nostra privacy, è invasa tutti i giorni dai nuovi sistemi tecnologici: telecamere sparse in tutti gli angoli della città, cellulari che sono diventati strumenti di individuazione e di controllo di quello che comunichiamo, sistemi informatici che vengono attaccati da agenti esterni a nostra insaputa, sistemi elettronici che rilevano costantemente il consumo personale e la sua qualità nei minimi particolari, anche se in Italia e in Europa ci sono normative che limitano gli spazi di invasione, ma evidentemente il potere non ha nessun interesse ad applicarle. Eppure cresce la nostra ansia, la nostra insicurezza, le nostre paure. Forse dobbiamo iniziare a chiederci perché e a chi fa comodo tutto questo!!!
La libertà, il potere e la società sono temi tra di loro intrecciati, ma se osserviamo la storia dell’umanità, non hanno avuto una evoluzione parallela, cioè più libertà non ha corrisposto sempre a più potere personale o a più società e viceversa. E’ come se questi tre concetti trovano nell’evoluzione dell’uomo un proprio equilibrio lottando tra di loro.
Ma è l’uomo stesso che con il suo agito quotidiano che ne trova l’equilibrio. Ed è sempre l’uomo, in carne ed ossa, che modifica l’equilibrio, intervenendo su uno dei tre fattori: libertà/potere/società e avviando il cambiamento.
http://www.youtube.com/watch?v=ZRTkTQb-wfQ Il potere dei buoni di Gaber

mercoledì 28 gennaio 2009

PROBLEMI RIVOLUZIONARI: il benessere e l'aggressività


La rivoluzione è quotidiana e paradossalmente cerca benessere, ma spesso per ottenerlo lo distrugge. Infatti una delle cose che maggiormente mi hanno fatto pensare, tanto da star male, è la contraddizione tra benessere e aggressività. Questa contraddizione è insita nella logica dei due termini essendo il benessere sinonimo di costruzione e l’aggressività sinonimo di distruzione. E’ noto che il benessere è però contemporaneamente scopo e mezzo dei comportamenti umani, mentre l’aggressività viene considerata come mezzo e mai come fine a se stessa. Questo a livello cosciente, perché spesso la tradizionale maniera di concepire l’aggressività come mezzo per raggiungere il benessere viene a essere sostituita da una concezione dell’aggressività come fine a se stessa, come puro piacere di aggredire.
Mentre è chiaro che spesso si aggredisce per raggiungere un benessere, non è altrettanto chiaro perchè si ricerca un certo benessere per poter meglio aggredire. Questo è il circolo vizioso dell’aggressività: si aggredisce per avere un benessere e si cerca un benessere per potere meglio aggredire. Il fatto che non si possa raggiungere il benessere, la soddisfazione, il piacere, la felicità senza combattere, che il volere una cosa significhi inevitabilmente combattere contro qualcuno, che ci sia sempre o nella realtà o nella fantasia qualcuno che impedisce di raggiungere ogni cosa voluta o desiderata, fa oscillare tra le considerazioni pessimistiche su di sé e sul genere umano e le velleità di combattere per finire di combattere.
Il dilemma è tra l’accettazione di tale contraddizione e il tentativo di uscire dalla contraddizione: “la guerra è la guerra”. Il fatto che il maggior benessere provochi maggiore aggressività è un’idea che contraddice la credenza comune per cui il benessere stordisce e rende meno aggressivi. Molti fatti che accadono ormai quotidianamente indicano che con l’aumento del benessere aumenta anche l’aggressività.

Il benessere e l’aggressività
Di fronte al dilemma benessere-aggressività due sono le alternative possibili: o ritirarsi e rinunciare, oppure fare la guerra e promettere la fine dell’aggressività. Erotizzare l’istinto di morte conduce alla constatazione che questo istinto è ineliminabile. Si erotizza quello che non si può eliminare facendo di necessità virtù. Si rende spesso l’istinto di morte accettabile socialmente (la guerra, il successo, la sopraffazione e lo sfruttamento) perché non si riesce ad accettarlo come tale e non si riesce a eliminarlo.
Ogni uomo è a un bivio: meglio rinunciare per non distruggere e per non correre il rischio di trasformare l’aggressività da mezzo a fine, o meglio distruggere per averlo? Meglio cioè rischiare quotidianamente la propria e altrui morte per poter meglio vivere ciò che si vuole, oppure accettare passivamente il flusso del proprio destino e seguire il calmo inoffensivo succedersi dei giorni senza desiderio? In queste domande è implicita l’idea di un desiderio come lotta, di un comportamento continuamente al bivio tra la guerra per avere qualcosa e la guerra per distruggere chi ci impedisce di averla.
Forse le idee di cambiamento e di rivoluzione non sono concetti lontani e pericolosi, ma tenuti lontani perché pericolosi. E resi pericolosi per tenerli lontani. Forse l’idea di attribuire a una sola persona o a un solo fattore la responsabilità del mancato raggiungimento di quello a cui tendiamo è falsa. Perciò compito odierno della psico-sociologia è quello di rendere familiare alla gente l’idea di lotta non distruttiva, di rivoluzione paritaria. La quotidianità di questi concetti connessi con l’aggressività, la loro non minacciosità potrebbero permettere l’esercizio di quella che E. Fromm ha chiamato aggressività benigna. Se tale aggressività non viene agita, tende a essere repressa come fatto anormale e quindi dà origine a un’altra aggressività, maligna, cioè distruttiva che impedisce comportamenti e desideri costruttivi.

venerdì 23 gennaio 2009

Putsch per coprire il malaffare dei Fondi Europei

Senza clamore il 19 gennaio a Roma è stato portato a compimento un putsch politico-giudiziario. La decisione del CSM in relazione alle inchieste della magistratura di Salerno sull'operato dei colleghi calabrasi si pone al di fuori della democrazia. Infatti il CSM da organo deputato alla difesa dell'indipendenza dell'ordine giudiziario si è trasformato in braccio disciplinare degli interessi occulti che fanno capo non solo alla parte peggiore della politica, ma anche ai potentati malavitosi economici e finanziari. In queste ore sta accadendo un salto di qualità, perchè se prima le "porcate" si facevano in silenzio e possibilmente all'oscuro, oggi invece una azione giudiziaria che scoperchia un malaffare, viene sterilizzata con una azione del CSM invocata dal ministro della Giustizia. SIAMO ALL'ARBITRIO ISTITUZIONALE!!!

Questa vicenda insegna alcune cose:
  1. L'inchiesta definita Why Not e quelle collegate hanno acceso i riflettori su di un santuario che non doveva essere violato. Di mezzo ci sono decine di milioni di fondi europei giunti dalla Unione Europea e finiti chi sà dove. I magistrati che hanno provato ad indagare sono stati bruciati tutti. Cosa simile è capitata ai giornalisti.

  2. L'inchiesta, cominciata da Luigi De Magistris deve aver toccato un livello altissimo non solo pilitico.

  3. Il CSM con il suo comportamento ha voluto dare una lezione a tutti i magistrati che in futuro potrebbero avere l'ardire di pensare soltanto di non attenersi allo stretto necessario.

  4. Che in quel malaffare erano coinvolti e facevano da garante pezzi della stessa magistratura.

  5. Un putsch del genere non può essere avvenuto senza l'avallo di tutto lo schieramento politico istituzionale, in quanto in seno al CSM ci sono togati e laici che fanno riferimento a tutti i partiti.

  6. Rispetto a questa vicenda l'Associazione Nazionale dei Magistrati è stata a rimorchio della politica, ma questo accade ormai anche per gli altri ordini professionali, vedesi quello dei giornalisti.

L'Italia non è più una Democrazia. Se la gente ha intenzione di farsi mettere i piedi in testa si accomodi pure. Ma senza giustificazione alcuna, i primi responsabili di questa deriva sono gli stessi cittadini.

martedì 20 gennaio 2009

Forse è già pronta un pillola per aumentare il conformismo


Sono rimasto esterefatto leggendo l'articolo della rivista Le Scienze con titolo "Evidenziate le basi neurologiche del conformismo". http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/articolo/1334428

L'articolo sostiene che dopo aver scoperto il processo cognitivo ed emotivo che fa sorgere il conflitto nell'individuo tra il proprio sistema valoriale e quello di gruppo è possibile agire sui neuroni per eliminare tale conflitto.

Quindi non solo viene teorizzato il pensiero unico omologante che domina tutti gli individui, ma se ci fosse qualcuno che confligge, perchè ha un sistema valoriale diverso da quello dominante del gruppo e non lo accetta, lo curiamo con qualche pillola.

E questi "esperti" si spacciano anche per buonisti e si chiedono: perchè l'individuo deve soffrire nel conflitto tra i propri valori e quelli della maggioranza? Ci pensiamo noi (esperti), eliminando il conflitto con delle combinazioni chimiche.

Si fa tanto parlare di leadership, di innovazione, di creatività, poi se uno devia un pò la norma o l'ordine precostituito o appena alza un pò il sopracciglio, lo curiamo con delle pillole e se non bastasse lo reprimiamo fisicamente con la marginalizzazione in qualche ghetto.

Forse l'unica cosa che possiamo sperare e che le pillole siano multicolore!

sabato 17 gennaio 2009

Contro la guerra

IL SILENZIO DI FRONTE AI MASSACRI DELLA GUERRA

giovedì 15 gennaio 2009

La scuola a casa: è obbligatoria l'istruzione non la scuola

In Italia non è la scuola ad essere obbligatoria, ma l'ISTRUZIONE ed è possibile scegliere metodi di istruzione alternativi al sistema scolastico pubblico e privato, come la scuola a casa.
Contrariamente a quello che si dice – chiamandola scuola dell'obbligo – in Italia a essere obbligatorio è un grado d’istruzione minimo, come previsto dalla legge.

La Costituzione garantisce che sia un diritto e un dovere del genitore occuparsi dell’istruzione del figlio – qualora non se ne possa occupare direttamente (anche pagando un insegnante o una scuola privati), se ne prende carico lo Stato.

Numerosi articoli di legge regolamentano la scuola, fermo restando che chiunque, disponendo dei necessari mezzi materiali e immateriali, ha il diritto in Italia di occuparsi personalmente dell’istruzione del figlio. Questa opzione si chiama per la legge scuola paterna, ma è più conosciuta come scuola familiare o scuola a casa.

Nessun esame è obbligatorio a parte quello di licenza media inferiore, un diritto/dovere per ogni cittadino italiano. È necessario comunicare l’intenzione di fare scuola a casa in gennaio, al momento dell’iscrizione, al direttore didattico di competenza. Un’ulteriore buona notizia riguarda il cambiamento dell’età dell’arruolamento alla scuola: mentre fino a due anni fa venivano iscritti i bambini nati nell’anno solare, ora solamente quelli che hanno compiuto sei anni entro il 31 agosto.Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda annoverano tutti un gran numero di bambini educati a casa. I paesi anglosassoni vantano la tradizione più lunga di home schooling, e costituiscono un punto di riferimento internazionale importante. In lingua inglese esistono numerosi siti internet con forum di scambio, associazioni e pubblicazioni.

Pensiamo a come potrebbe essere estesa l'istruzione a tutti attraverso l'utilizzo di internet e ridurre drasticamente la presenza a scuola, ormai inutile e in molti casi dannosa per gli stessi ragazzi.

domenica 11 gennaio 2009

Il soggetto come progettista di benessere


L’idea di soggetto come titolare di un progetto di benessere rappresenta il momento di partenza di ogni “lotta per” e quindi il benessere è la grande molla di ri-appropriazione dell’appartenenza e della partecipazione. Un soggetto è immateriale perché il benessere che persegue è di tipo immateriale; è plurale perché molte sono le forme di benessere per lui possibili e richieste; è progettuale perché il benessere si declina nel futuro e non solo nel presente; infine pretende sovranità e non accetta la scarsità imposta dal dominio. Ogni soggetto pretende di produrre e moltiplicare la “sua” ricchezza e impiega la sua energia psichica per farlo.
La creazione di ricchezza come creazione di benessere si basa sull’idea di energia psichica che passa tra le relazioni, passa dalla sorgente/soggetto alla destinazione/oggetto d’amore. Il passaggio di energia psichica attraverso la relazione crea il clima di una comunità., che si esprime con il potere, cioè con la capacità di produrre o impedire i cambiamenti. Quindi il clima di una comunità è determinato dalla capacità di creare oggetti d’amore.
Non vi è potere senza desiderio.
E il potere significa cambiamento, cioè in definitiva creazione di benessere e di ricchezza. Potremmo dire che la ricchezza si crea mediante la gestione del desiderio. Il desiderio significa essenzialmente creazione di oggetti di amore e investimento di energia psichica. La creazione degli oggetti d’amore consiste nell’investimento di energia psichica. Quindi possiamo parlare di investimento come moltiplicazione e dis-investimento come scarsità dell’energia psichica.
Il processo di moltiplicazione si esprime mediante la creazione di oggetti d’amore. Questi possono essere delimitati o illimitati e dare origine a sentimenti/desideri di potenza e di onnipotenza. Nella società “abbondante”, dove paradossalmente il dominio tenta continuamente di far tornare la società all’epoca del malessere, della scarsità, ci sono due grandi meccanismi regolatori della ricchezza tuttora in gioco: gli scarsificatori e i moltiplicatori. Possiamo anche definirli come repressione (creazione di scarsità, ritiro energetico, depressione) ed espressione (creazione di abbondanza, investimento energetico, euforia). Gli scarsificatori tendono mediante la minaccia, il tabù e il senso di colpa a rendere scarsi i beni e il benessere, cioè la ricchezza, i moltiplicatori tendono invece mediante la promessa, la motivazione e il sentimento positivo a rendere abbondanti i beni e il benessere, cioè la ricchezza. La produzione di ricchezza in una cultura dell’abbondanza tende a diventare sempre di più produzione di beni immateriali e di servizi, così come la materialità del prodotto è stata ed è la caratteristica della produzione di ricchezza nella cultura della scarsità. La scarsità del materiale è stata da sempre combattuta con l’abbondanza dell’immateriale. Questa lotta è stata rappresentata dalla libertà dello spirito dall’aspirazione alla libertà dell’umanità.