lunedì 18 maggio 2009

Sarà pace per sempre?

Ogni qualvolta che pensiamo al conflitto ci viene subito in mente la guerra. La guerra è il fenomeno che ci può aiutare meglio a comprendere le barbarie che si nascondono dietro la rimozione dei conflitti della nostra società. Aver pensato di poter vivere costantemente in un mondo di pace, che era pace solo per una parte del mondo mentre per l’altra parte le condizioni di vita si brutalizzavano sempre di più, ha reso talmente banale il male che abbiamo finanche rimosso il senso di colpa e quindi la responsabilità di gestirlo.
Nel 1778 Kant nel suo “Progetto per la pace perpetua” affermava che il cammino verso la pace universale era possibile in quanto l’umanità era ormai in condizioni di governarsi razionalmente da sola. Insomma “i bambini erano diventati adulti”: li si poteva far uscire da soli senza che fossero massacrati in giro per il mondo. Oggi, a distanza di più due secoli chi oserebbe ancora parlare di pace continuativa o semplicemente di temporanei cessate il fuoco?
Forse dovremmo iniziare a prendere coscienza che la guerra non è una malattia infantile dell’umanità, ma ha una sua ragione di esistere. Non tutto quello che esiste nella vita degli uomini, possiamo dividerlo tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto. Esiste e basta! La guerra, insomma, è necessaria al sistema in cui viviamo, lo riequilibra, un enunciato difficile e doloroso ma molto vero! Ciò non toglie che ancora oggi la guerra sia pensata come un’anomalia a cui tentare di porre fine al più presto, una forma di conflitto che si tratta di eliminare alla radice. Solo la pace appare desiderabile, almeno da un punto di vista astratto e idealista.
Secondo l’ideologia dominante delle nostre società disciplinari, solo un folle, invece, può desiderare la guerra, infatti siamo pieni di servi che preferiscono aver salva la vita in cambio della rinuncia alla libertà. Il servo è colui che, anziché farsi carico della conflittualità, della guerra e della sua violenza, sceglie per una disciplinata sopravvivenza. Il guerriero invece è una figura antropologicamente decisiva in tutte le culture e le società umane, di cui è difficile valutare la portata in un’epoca ipocrita in cui l’industria degli armamenti prospera accanto ai discorsi sdolcinati fatti a favore della pace. Dobbiamo imparare a pensare nuovamente la guerra non come una pura e semplice interruzione della normalità, ma come un quadro di sviluppo complessivo in cui si inscrivono molteplici processi. Del resto come non notare che anche le ragioni dell’odierna contrapposizione tra Oriente e Occidente, in apparenza tanto legate a vicende contemporanee, ripetono di fatto uno scenario vecchio di almeno dieci secoli? E al ruolo di cerniera che l’Italia storicamente ha svolto tra queste due civiltà? E che cosa succederà se l’Italia viene meno a questo ruolo, come sembra che faccia, in relazione alla vicenda della non accoglienza e dell’intolleranza nei confronti dei disperati che provengono dai paesi poveri del mondo? Oppure siamo così sciocchi da pensare che questo non modificherà l’atteggiamento di quei popoli nei nostri confronti?
Quindi le domande da porsi sono: come possiamo pensare al mondo e alla vita, individuale e sociale, rinunciando alla promessa della pace perpetua? Come possiamo introdurre nelle nostre visioni del mondo, nei nostri modelli di riferimento per imparare nuovamente a pensare alla guerra come a un qualcosa che si ripresenta nella vita delle società?
Se non riusciremo a riappropriarci di questa dimensione, lungi dal chiudere definitivamente i conti con la realtà della guerra ci condanneremo a guerre sempre più barbare, perché combattute nel deserto dell’indiscusso e dell’impensato. Perché la guerra non sia guerra totale, è necessario tornare a includere nei nostri schemi di pensiero ciò che avevamo creduto di poterne escludere. Quindi bisogna criticare la guerra a partire da posizioni oggettive e non idealistiche, questo è quanto dobbiamo fare se vogliamo interpretarla come una delle forme molteplici e contraddittorie del conflitto, anziché come un puro e semplice fronteggiarsi di potenze ostili.

4 commenti:

  1. E' preferibile la guerra ad una finta pace...

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  2. "Quindi le domande da porsi sono: come possiamo pensare al mondo e alla vita, individuale e sociale, rinunciando alla promessa della pace perpetua? Come possiamo introdurre nelle nostre visioni del mondo, nei nostri modelli di riferimento per imparare nuovamente a pensare alla guerra come a un qualcosa che si ripresenta nella vita delle società?"
    Che difficile...secondo me esistono tanti tipi di guerra, oggigiorno una guerra da guerrieri spartani sarebbe fuori moda o forse una bella guerra civile potrebbe essere "necessaria al sistema in cui viviamo". Senza però armi chimiche, bombe inteligenti e mine antiuomo bombardamenti a popoli interi comodamente seduti a casa quelle guerre sono da schifosi vigliacchi. Guerre fatte di sangue e sudore (anche una carabina o una vecchia pistola a piombo dai)insomma lotte da coraggiosi. Oggettivamente guerriero è chi combatte la guerra, e anticamente anche i re e gli imperatori morivano se sconfitti.
    Forse la risposta non esiste nella mia testa pacifista e diplomatica, lascio queste decisioni a chi come te ha uno spirito più GUERRIERO!

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  3. Secondo me la guerra è l'espressione più alta del conflitto represso: la conflittualità non viene risolta man mano che si forma, le tensioni aumentano e alla fine esplodono in forme incontrollate di violenza. La guerra poi difficilmente risolve veramente un problema (per lo meno nelle guerre moderne, dal Vietnam in poi per intenderci) ma ne crea semmai altri che vanno ad aggiungersi a quelli già esistenti prima

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  4. Comprendo che le guerre sono quasi inevitabili e, infatti, ve ne sono tuttora molte e molte "dimenticate". Però sono più che convinta che il mondo, invece, debba tendere alla pace, anche se questa spesso è difficile o quasi impossibile da ottenere. Forse (e forse è utopistico) occorre che un Paese - mettiamo per assurdo l'Italia - incominci a rinunciare alle armi e alla loro fabbricazione. Sarebbe un primo esempio. A parte il fatto che tutto il denaro usato per questi non nobili fini potrebbe allora essere utilizzato per i bisogni veri del Paese

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