lunedì 22 giugno 2009

Politica come religione

Storicamente la via maestra della risoluzione dei conflitti è stata quella politica. Lo è ancora oggi, anche se, in cerca di soluzioni ci rivolgiamo ormai senza troppa convinzione a uomini politici ridotti nella maggioranza dei casi alla caricatura di se stessi, personaggi a cui domandiamo risposte che, lo sappiamo benissimo, da tempo non posseggono più. Nonostante tutto perdura la fede nell’esistenza di una via maestra politica attraverso cui i conflitti dovrebbero essere assunti e risolti: via della politica che finisce per essere una sorta di imbuto delle contraddizioni, che vengono immancabilmente incanalate nella sola dimensione della rappresentazione. L’ipotesi che prevale quando si affronta una contraddizione è che tutto sia politico e quindi vi è una immediata riduzione e spostamento altrove del conflitto e gli attori del conflitto in essere si sentono “salvi” e non impegnati dal compiere delle azioni consequenziali. Il risultato di questa ipotesi è che tutto ciò che riguarda la vita della società e delle persone è pensato, affrontato, risolto nel e attraverso il campo del politico.
Non parlo del politico nel senso della polis, ma delle dimensioni circoscritte e regolamentate della politica rappresentativa, della politica dei partiti e dei gruppi di pressione. L’insieme dei conflitti e dei processi che fanno la vita di una società viene così mascherato dal monopolio di cui gode il regime della rappresentazione, secondo un processo di politicizzazione del conflitto che comporta il sistematico sradicamento degli uomini dalle loro vite concrete. Quindi mai nessuno si sente davvero coinvolto in un conflitto, dove si può vincere o perdere! Tutto questo non impedisce naturalmente lo sviluppo di ogni genere di attività e mestieri più o meno rispettosi della legge, legati alle varie dimensioni della nostra esistenza.
Tuttavia, di fronte a problemi che nascono all’interno di ciascuna di quelle dimensioni, si arriva immancabilmente alla conclusione che i limiti, le paralisi, la matrice stessa di quei problemi appartengono all’ambito politico. Ad esempio osserviamo quanto accade nella scuola italiana : si lavora per 8 forse 9 mesi all’anno, il personale guadagna per 13 in molti casi 14 mensilità e questa situazione determina il fatto che il 97/98% delle entrate scolastiche viene speso solo per il personale e nulla per gli apprendimenti degli allievi. Invece di affrontare immediatamente queste contraddizioni esse vengono immediatamente spostate sul piano politico- partitico e la conseguenza è che rimangono irrisolte, perché gli attori in campo si sottraggono dal conflitto, beneficiando dei più alti privilegi di ogni altro lavoratore.
Gli uomini e le donne contemporanei non saranno più in attesa di un mondo ideale, ma la sfera del politico conserva ancora, almeno nella forma degradata da un appiattimento della vita sulla dimensione dell’economico, una posizione centrale che ne fa il destinatario automatico dei nostri auspici, delle nostre lamentele, delle nostre rivolte, dei nostri desideri. Ovviamente lo scambio che effettua l’oligarchia politica con questo apparato burocratico amministrativo, che in Italia conta diversi milioni di persone, è quello di costituirsi in una casta con privilegi altrettanto superiori.
Vi è, in questo, il miraggio di una nuova trascendenza del politico, che ha preso il posto delle antiche forme di trascendenza religiose. Il politico ha oggi i suoi chierici e i suoi credenti, le sue chiese e i suoi riti, i suoi eretici e i suoi santi. Investendolo di un compito messianico, noi non ci attendiamo più soltanto una buona gestione degli affari pubblici, che per altro non avviene se non per gli “affari” di alcuni gruppi, ma l’indicazione del cammino che deve condurci verso il mondo della “promessa”. Come se la formattazione che esso realizza dei nostri conflitti non gli consentisse soltanto di “trattarli”, ma anche di farci partecipare all’avvento di una società “del sole dell’avvenire”. Ogni pietra incontrata sul cammino, ogni problema in cui ci imbattiamo diventa così un segnavia per la “terra promessa”.
Altro che fine delle ideologie: siamo di fronte all’elevazione dell’ideologia alla sacralità della religione!

domenica 14 giugno 2009

Trasparenza securitaria

Le nostre società hanno fatto ingresso, credo in modo definitivo, nell’epoca della negazione dell’alterità e del conflitto. Nessuno dei problemi in cui siamo soliti imbatterci, sia a livello collettivo che a livello personale, viene più riconosciuto come conflitto. Fatto salvi i casi di conflitto “autorizzato”, previa formattazione, preferiamo procedere alla loro rimozione, nella convinzione che ogni opacità debba essere sradicata, che ogni forma di alterità nasconda un potenziale nemico.
La trasparenza e il consenso sono gli ideali per cui tendiamo a credere che le intenzioni delle nostre azioni ci siano chiare e note a noi e agli altri. Pensiamo che ogni attività umana rinvii ad una intenzione ed uno scopo umanamente comprensibile. Che nulla venga intrapreso se non in vista di un certo utile. Ed infine che quella trasparenza che noi dobbiamo a noi stessi e agli altri, che gli altri devono a noi e al potere, sia un’esigenza legittima e priva di ombre e di doppi fondi.
Certo può accadere che i cittadini in una nazione non siano tutti d’accordo con una tale riforma o legge promossa dal governo in carica, ma si è soliti spiegare questa circostanza col fatto che essi “non hanno compreso la ragione” del provvedimento. Nei gruppi, infatti, appare spesso che le opinioni possono divergere tra di loro, ma solo perché non ci si è “spiegati bene” o a sufficienza. Le ragioni altrui che divergono dalle nostre sono sempre considerate anormali, transitorie, dunque modificabili. Non pensiamo mai che l’altro abbia ragioni diverse e immodificabili da noi!
Da qui nascono i problemi di un’assenza di leadership reale, la quale nasce e si determina su un conflitto di posizioni e sull’affermazione di una visione del mondo. Tuttavia, se manca il conflitto dove può avvenire la determinazione della leadership se non in una dimensione filtrata e mediata al ribasso, dove nessuno si assume le responsabilità, né i gregari di un gruppo né tanto meno il finto leader che manifesterà le sue funzioni sempre più in modo repressivo?
Nel rapporto con noi stessi, nella vita politica e sociale del nostro paese soffriamo spesso di tali deficit e una determinata formazione, che secondo me è solo indottrinamento, ha ricondotto questo ad un problema di “comprensione” o di “comunicazione” che impediscono la trasparenza totale, l’intesa universale, l’accordo sempre e a tutti i costi. Non è in nessun modo ammessa, invece, la possibilità che ci siano azioni ed idee non analizzabili in termini di utilità e quindi non comprensibili con determinati schemi di interpretazione e non riconducibili a problemi di tipo comunicativo. Ed è qui uno dei confini psicologici sradicati dall’attuale tendenza soft e subdola alla rimozione del conflitto che tanti in-formatori “mielosi” diffondono in giro.
Personalmente ritengo che ci sia la necessità di accettare il conflitto in modo permanente e che questo implichi il riconoscimento di una molteplicità di punti di vista la cui difformità non può essere liquidata come un semplice “difetto” presente in quelli che “non capiscono”, vuoi per carenza di “informazioni”, vuoi per insufficienza nella “comunicazione”. Penso, invece, che ci siano ancora uomini e donne non ancora “senza qualità”, non ancora impregnati dalla ideologia della neutralità e dell’indifferenza, non ancora formattati definitivamente nei desideri e nella loro libido, che semplicemente si ribellano alle norme sociali perché hanno altri punti vista del mondo e della realtà
Abbiamo, inoltre, una versione “hard”della rimozione del conflitto che implica molto semplicemente lo sradicamento dell’alterità: una società della trasparenza radicale non conosce antagonisti, ma soltanto “terroristi” e “devianti” da annientare. In questo modo si disconosce l’esistenza stessa dei conflitti, perché riconoscerli significherebbe accettare che esiste qualcosa che si oppone alla trasparenza e soprattutto alla “sicurezza” delle popolazioni. L’accettazione del conflitto implica che altri possano opporsi a un certo ordine sociale senza costituire questo come un’anomalia da eliminare.
Le società contemporanee, lungi dall’essere diventate società pacificate, proprio perché negano e rimuovono il conflitto sono attraversate da un’immensa carica di violenza alla quale si reagisce con politiche securitarie che aumentano i sistemi di sorveglianza e di punizione.
Insomma una specie di cane che si morde da solo la coda in un vortice sempre maggiore di follia!

domenica 7 giugno 2009

Terrorismo: solo uno spauracchio

Se oggi il terrorismo è funzionale alla legittimazione di una serie di provvedimenti liberticidi da parte degli stati, è giocoforza constatare che anche i gruppi e gli attentati terroristici hanno subito profonde trasformazioni. Se pensiamo, ad esempio, alla resistenza nei diversi paesi europei durante la Seconda guerra mondiale, è indubbio riconoscere che questa non ha mai utilizzato metodi terroristici, non ha mai colpito alla cieca la popolazione per esercitare una pressione sul nemico.
Pertanto quando osserviamo uno dei tanti conflitti armati tuttora in atto, dobbiamo distinguere tra la resistenza armata che si indirizza a un bersaglio avversario anch’esso armato e l’impiego contemporaneo della violenza su bersagli civili, il cui scopo è appunto quello di far pressioni sul nemico, mietendo vittime in modo del tutto indiscriminato.
Questo tipo di strategia assume la popolazione come pura massa anonima, come oggetto assolutamente passivo. Analogamente il biopotere offre una protezione “anonima” alla popolazione minacciata, chiedendole di “lasciar fare” alle alte sfere in nome del suo bene, vedasi la vicenda della base americana di Guantanamo, nella quale vengono ingabbiati i prigionieri della guerra dell’Afganistan in condizioni disumane e dove a nessuno organismo internazionale è permesso di mettere piede.
La novità del terrorismo moderno è quella di essere profondamente reazionario. Al di là del frasario con cui rivendica i propri atti, il terrorismo pensa dal punto di vista del potere. Chi programma gli attentati terroristici assume la popolazione civile come semplice moneta di scambio, utilizzando la vita delle persone come argomento a proprio favore. Il terrorismo è un’arma reazionaria pensata e impiegata dall’alto di una torre d’avorio: chi la occupa non esita a massacrare migliaia di persone sullo scacchiere del potere internazionale.
Ma l’utilizzo degli attentati terroristici, come arma o come giustificazione di una forma di disciplina sociale, è diventato uno degli strumenti principali di annullamento del conflitto ed è proprio in questo che risiede tutto il progetto reazionario e liberticida. La popolazione occidentale, che ormai è considerata un corpo da sorvegliare, da controllare e da punire, si trova a scegliere da una posizione di passività assoluta quale delle due barbarie in campi sia la meno peggio. C’è sempre un’urgenza che giustifica il controllo disciplinare della popolazione: il corpo sociale è in pericolo, è necessario agire immediatamente e la conseguente azione consiste nella discriminazione, nel disciplinamento, nell’eliminazione dei “devianti” e dei “nemici”. Ma anche se ci poniamo dall’altra parte della barricata la “causa” ha sempre i tratti dell’urgenza: non c’è mai il tempo per organizzare un vero movimento di massa di resistenza, non c’è mai il modo di sviluppare nuove possibilità di conflitto sociale che producano lotta, non si può che adottare la sola via ancora percorribile, quella del terrore della popolazione. Questo tipo di logica, anche se in forma più soft, è stata assunta come meccanismo di lotta politica tra partiti in uno schieramento bipolare che semplifica ed elimina tutte le diversità e le sue possibili rappresentanze politiche e sociali.
In questo orizzonte, in cui il conflitto si è ridotto a scontro frontale, il razzismo diventa la struttura stessa dell’azione: l’altro è sempre un soggetto “non-umano” che va eliminato con ogni mezzo, meritevole di subire la violenza più barbarica in quanto nemico dell’umanità. Tuttavia, quando si inizia a credere che esiste una barbarie buona e una cattiva, quest’ultima ha già vinto la partita. Si abbandona il conflitto per far ingresso in una forma di vita organizzata in funzione dello scontro permanente, in una dimensione di polarizzazione estrema. Ogni pensiero della complessità diventa sospetto, ogni persona le cui reazioni non si riducano a riflessi condizionati, ad automatismi che decidono a priori chi è il buono e chi il cattivo, apparirà incline alla connivenza con il nemico. Quanti si sforzano di pensare in termini più complessi risulteranno pericolosi agli occhi dell’uno come dell’altro versante.
Oltre che degli atti terroristici veri e propri, l’epoca del terrorismo è caratterizzata dalla paura e dall’incertezza da cui ciascuno di noi si scopre in ogni istante assillato. Per questo è particolarmente concreto il pericolo che sia il terrorismo a vincere in ultima analisi la partita. Paradossalmente, la risorsa decisiva per uscire da questa situazione di terrore è quella di rintrodurre il concetto del conflitto nella sua molteplicità e quindi accettare che la guerra e le lotte armate di resistenza ne siano uno dei tanti risvolti.