domenica 24 maggio 2009

Il dominio si fonda sull'eliminazione del conflitto

Se provate a chiedere a un gruppo di persone come affrontare il conflitto, la risposta è che l’unico modo possibile è la guerra. La guerra serve a porre fine a qualsiasi conflitto: ma un simile pensiero della “tabula rasa” dimentica la complessità del conflitto a vantaggio del momento dell’eliminazione dell’avversario. La violenza delle nostre società sarebbe confinata nei periodi di guerra e l’unico spazio in cui può esplodere la tensione accumulata e che struttura i rapporti sociali di ogni giorno è quella della “guerra totale”.
La guerra totale è soprattutto una guerra senza regole: le battaglie e gli scontri, che in genere hanno precisi meccanismi di regolazione interna, si disfano di quei vincoli per lasciar posto a conflitti armati senza limite, il cui obiettivo è l’eliminazione della popolazione nemica nel suo insieme, anziché soltanto del suo esercito. La guerra totale comporta quindi l’esplicita volontà di riduzione del conflitto al solo conflitto armato: essa non è solo una guerra più barbara di altre, ma è una guerra che mira alla riduzione del conflitto ad una unica dimensione, appunto quella della scontro.
Le origini del fenomeno si ritrovano già in tempo di pace. La guerra totale nasce da società incapaci di pensare il conflitto nelle sue diverse dimensioni, da società che pensano di dover affrontare il conflitto mirando all’annientamento di tutto ciò che è “altro”. Infatti credo, che questo tipo di tendenza sia iniziata dagli eserciti rivoluzionari nella Francia del 1789 destinata a diffondersi in modo caratteristico nel XX secolo.
L’esordio del novecento è stato il genocidio degli armeni e da quel momento la storia contemporanea è passata da una “soluzione finale” a un’altra senza interruzioni. A Guernica si tennero le prove generali della Seconda guerra mondiale. Poi venne l’annientamento di massa degli ebrei d’Europa, nonché degli zingari e degli altri “devianti”, gli omosessuali, i malati psichici. Tutto questo segnò un taglio netto rispetto a ogni forma tradizionale di conflitto. Nei campi di sterminio, insieme a sei milioni di ebrei, morì il progetto dell’Illuminismo, morì la sua fiducia in un progresso illimitato, che avrebbe dovuto condurre l’umanità a realizzare il paradiso in terra. Le scienze, la filosofia, il movimento operaio avevano fatto della Germania una promessa per il futuro, e l’eco di tutto questo era ancora ben percepibile negli anni in cui si affacciò sulla scena il nazismo. Eppure la promessa partorì il mostro, e il mostro della guerra totale e della “soluzione finale” proseguì il suo cammino dalla Cambogia al Ruanda, teatro di altrettanti conflitti deregolamentati che culminarono nel genocidio. E’ infatti caratteristico di simili massacri che essi costituiscano la continuazione della politica con altri mezzi. Non però di una politica qualsiasi. Ma di una politica di dominio, cioè di una politica fondata sull’annientamento del conflitto.
La guerra moderna è infatti indissociabile dalla distruzione della dimensione del conflitto, attraverso la sua riduzione a puro e semplice scontro. Di qui l’illusione, propria di ogni guerra tecnologica, di una totale padronanza della violenza e dei risultati a cui la violenza sembra portare. Illusione, tuttavia, che dà vita al suo opposto, alla guerra ingovernabile, alla guerra senza limiti. Nessuna delle guerre moderne è finita nei tempi e nei modi previsti. Il solo caso di una guerra che si sia svolta secondo i desideri dei generali è quello della guerra dei sei giorni nel 1967. Questa guerra fece precipitare Israele e l’insieme dei paesi arabi limitrofi in una situazione senza via d’uscita, e il trionfo che i militari avevano ottenuto sul campo mirando alla semplice vittoria di uno scontro non fece altro che consegnare Israele a una realtà subito rivelatasi ingestibile, quella dei territori occupati. Di fronte alla complessità del mondo arabo e quindi alla molteplicità delle sue contraddizioni (ci sono posizioni che vanno dal movimento palestinese rivoluzionario a posizioni dei capi di stato dei paesi arabi reazionari), di fronte alla problematicità di questo conflitto la guerra dei sei giorni era pensata come una guerra totale, la madre di tutte le guerre, destinata a semplificare una volta per tutte quella situazione ingovernabile. Ma proprio questa è la caratteristica tanto minacciosa quanto attuale della guerra come puro scontro.
L’idea è ormai entrata a far parte della vita quotidiana in tempo di pace. La violenza delle società disciplinari di questo inizio secolo plasma l’immagine dell’opposizione come minaccia che va eliminata.

3 commenti:

  1. Sì Luciano hai ragione, in parole povere paragoni il conflitto a ciò che è diverso ossia opposto e come abbiamo visto e studiato il diverso non viene accettato e quindi va eliminato quando al contrario si potrebbe conviverci civilmente, la civiltà totale un'utopia? o una realtà futura secondo te? L'uomo intelligente è uguale civiltà?
    Grazie degli interessanti spunti di riflessione
    Ciao

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  2. L'altro rimane altro da me affinchè rimanga aperto il conflitto, nel momento in cui l'altro è uguale a me e quindi si è omologato, non esiste più il conflitto eda un punto di vista sociologico la società è bloccata. Questa tendenza è iniziata molti anni fa in Italia, giò Pasolini parlava di società omologata....ciao

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  3. Sarebbe meglio imparare a gestire e superare il conflitto, a conviverci anche, forse si eliminerebbero gli "effetti collaterali" delle guerre....

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