domenica 29 marzo 2009

L'uomo è fragilità

Qualche giorno fa ero in autobus con un mio conoscente e attraversando una delle strade milanesi ci è capitato di assistere ad un gravissimo incidente stradale. Anziché fermarci e soccorrere i feriti, sull’autobus si è scatenata una discussione sui dati relativi alle statistiche sugli incidenti di quel tipo. Un modo per mettersi al riparo da ogni rischio di reazione emotiva coinvolgente. Era come se di fronte a quell’evento, che avrebbe dovuto provocare una reazione emotiva collettiva, ognuno di noi tendeva a rimuovere il proprio punto di vista e quindi a rimuovere l’emozione provata, sostituendolo con quella che si supponeva fosse la verità sciorinata quotidianamente dai mass media sui dati statistici degli incidenti stradali. Come se quella verità che assistevamo dall’autobus, non esistesse nella concreta esperienza delle persone coinvolte. Non nasceva da un vissuto che coinvolgeva i corpi e il sistema percettivo. Era appunto come se stessimo assistendo ad un dramma televisivo come spettatori.
E’ questo comportamento che ci fa evitare ad esempio di intervenire presso l’amico/a in difficoltà, domandandoci se ne abbia il diritto, se intervenire non sia un gesto indiscreto, dato che ciascuno ha la propria vita e i propri problemi, e non si può mai sapere che cosa stia provando davvero un altro.
E’ questo comportamento che non ci fa vedere le nuove povertà dilaganti nella nostra società, soprattutto nelle megalopoli; se non fosse così dovremmo essere coinvolti ad ogni angolo di strada.
E’ questo comportamento che ci impone di “rimanere neutrali”, perché esprimere un proprio giudizio significa interferire, impegnarsi eccessivamente o in modo troppo parziale. Ci si sente in colpa per il semplice fatto di “avere un punto di vista”; mentre la verità è appunto che noi “siamo” un punto di vista, un punto di vista materiale e concreto.
Rimuovendo in tal modo la fonte di ogni conflitto interiore, non facciamo altro che rimuovere il nostro “esserci” in una situazione concreta.
Per l’uomo moderno, la vita quotidiana non può essere che un susseguirsi di ruoli che si tratta semplicemente di recitare. Siamo impiegati o operai, padri o madri, amici, vicini di casa o persone di passaggio…. Ciascun ruolo richiede un comportamento sempre più rigoroso, sempre più aderente a un insieme di norme codificate.
Qualcuno potrebbe obiettare che in qualsiasi società le persone sono tenute a svolgere dei ruoli più o meno vari, ma la particolarità dell’attuale società sta nel fatto che ciascuno deve considerarsi e deve comportarsi come un “contenitore di alta qualità” predefinito e uguale a tutti gli altri. Nell’ideologia dominante, un ruolo può quindi essere occupato da chiunque. E’ vero che ogni società tende a normare i suoi individui, ma mai è avvenuto con tanta forza e sistematicità il negare le radici, le diversità, l’unicità, il vissuto molteplice e concreto degli uomini.
Non si tratta certamente di rimpiangere l’ordine sociale che fissava i ruoli di ciascuno in modo rigido, ma di comprendere che l’uomo astratto della modernità, lungi dall’avere posto fine ai suoi conflitti interiori, li ha semplicemente rimossi. L’uomo della modernità non è un uomo senza conflitti, ma è un uomo che vive i propri conflitti come qualcosa di anormale e nel suo profondo vive se stesso come un essere sempre inadeguato. E ciò è avvenuto in una sostanziale continuità con il modello vecchio di secoli che considerava i desideri, le passioni e le pulsioni come qualcosa da disciplinare. L’uomo contemporaneo non ha fatto altro che radicalizzare quello schema e portarlo al suo parossismo.
Siamo travolti dall’angoscia ogni volta che constatiamo in noi pulsioni, passioni, fantasmi che risultano contraddittori, che assediano i nostri ruoli sociali che ci sforziamo di interpretare. Mi capita, infatti, spesso di ascoltare persone che parlano della loro “diffidenza in se stessi”; l’origine di questo lamento ricorrente sta nel timore di sconfinamento dal proprio ruolo, nella possibilità ed eventualità di non potersi più controllare e quindi di far apparire al mondo intero quello che si è realmente: uomini fragili e quindi umani!

3 commenti:

  1. Credo che la "fissità" sia un segnale de debolezza. Coloro che stanno arroccati sulle loro posizioni, nel vano tentativo di mantenere ruoli che non sentono propri stanno solo difendendo sè stessi dal mettersi in gioco.
    Occorre imparare a non temere le proprie fragilità e debolezze, a non avere paura di entrare in relazione con chi ci sta intorno. Dagli altri noi possiamo ricevere, ogni persona è viva e ha qualcosa da donare.
    Questa società è malata, a mio parere, nello spirito. La crisi non è solo economica, o meglio la crisi economica è un aspetto, forse il più evidente, di un malessere diffuso.
    E l'unica speranza, a mio parere, sta nel rimettersi in movimento, abbandonare la staticitò e la passività delle nostre posizioni e sicurezze. Camminando si può anxhe cadere e farsi male, ma si possono "vedere" e incontrare e fare esperienze che lassù nei nostri castelli non possiamo di certo nemmeno immaginare.

    RispondiElimina
  2. molto interessante...e vero!

    RispondiElimina